Giovanni Belardelli Corriere della Sera 24 gennaio
Estratto dell’introduzione di Belardelli ad una nuova edizione presso l’editore Castelvecchi del testo scritto nel 1882 da Renan CHE COSA E’ UNA NAZIONE
Per Ernest Renan la nazione si fonda sulla volontà di appartenervi, perciò sul consenso; ma questo non implica, evidentemente, che qualcuno possa davvero decidere di non farne più parte. L’appartenenza a una determinata nazione, infatti, non è nella disponibilità del singolo, proprio perché la nazione stessa è il prodotto di elementi diversi che si sono combinati assieme attraverso i secoli: la politica di una dinastia, la fusione di differenti popolazioni, l’influenza di movimenti ideali, l’esito di una guerra e altro ancora. L’individuo che ne fa parte si trova dunque a dover scegliere ciò che, nella sostanza, non potrebbe non scegliere. Il «plebiscito di tutti i giorni» non allude in senso letterale a un voto, bensì si configura come «un rito di compiacimento periodico celebrato di fronte al miracolo dell’appartenenza».
Alla luce della critica di Renan alla «democrazia pura» fondata sul suffragio universale, possiamo anzi supporre che il soggetto di quel plebiscito non siano i singoli individui dotati del diritto di voto, ma la nazione stessa che si riconosce — grazie alla condivisione di una storia comune — come comunità consapevole e solidale.
La storia appunto svolge una funzione essenziale nel discorso di Renan. In primo luogo perché la nazione si è formata attraverso la storia. In secondo luogo perché quel passato, fattosi sedimento culturale, tradizione, identità, segna la vita attuale della nazione; vive e deve vivere in noi. In questa seconda accezione il passato è la memoria comune e condivisa della nazione: «Un passato eroico, grandi uomini, gloria (intendo quella vera), ecco il capitale sociale sul quale poggia un’idea nazionale». Possiamo ben dire che, per Renan, la storia viene prima del consenso: il passato comune costituisce la premessa del “consenso presente”
Nel richiamo alle pagine gloriose della storia nazionale Renan non si discostava dalla linea seguita allora da tutti gli Stati europei. Ma la peculiarità del suo modo di concepire la memoria nazionale consisteva nella capacità di includere anche i momenti negativi, poiché «la sofferenza in comune unisce più della gioia». Ciò non implicava però che il patrimonio comune di una nazione dovesse includere tutto il suo passato. Al contrario, la memoria nazionale doveva saper essere selettiva, espungendo da sé ciò che testimoniava degli scontri intestini, delle violenze, che avevano accompagnato il formarsi di una nazione.
Nella creazione di una nazione perciò, secondo Renan, l’oblio e perfino l’«errore storico» (cioè, potremmo anche dire, la capacità di addomesticare, reinventare il passato) svolgevano una funzione indispensabile, fino al punto da fargli ritenere potenzialmente pericoloso il progresso degli studi storici: «L’investigazione storica, infatti, riporta alla luce gli atti di violenza che sono avvenuti all’origine di tutte le formazioni politiche». Che l’elaborazione di una storia nazionale comune possa aver poco a che fare con la ricostruzione operata dagli storici di professione era del resto del tutto naturale nell’epoca in cui Renan pronunciava la sua conferenza: l’epoca che è stata definita dell’«invenzione della tradizione». Semmai le sue affermazioni si segnalano per il fatto di esplicitare il legame esistente tra il sentimento di appartenenza nazionale e una certa immagine — spesso, appunto, inventata in larga misura — del passato.
Che cos’è una nazione? di Renan è un testo giustamente famoso e che continua a essere costantemente citato, soprattutto per l’enfasi posta sul tema del consenso, da un lato, e su quello del rapporto col passato, dall’altro. La sua fortuna è legata anche al fatto che si tratta di un testo «felicemente ambiguo», che ha potuto essere considerato del tutto compatibile con ciò che caratterizza un’idea democratica della nazione, secondo la quale quest’ultima ha bisogno del consenso ma anche di una memoria comune. Senonché quel rapporto con il passato, che in Renan è essenziale, è diventato per noi problematico. In particolare appare problematico, se non impossibile, il ricorso all’oblio, da lui considerato invece fondamentale (…).
A prima vista l’insistenza sul dovere della memoria, sancito da una nutrita serie di date celebrative, potrebbe sembrare un modo per ripristinare quel rapporto con il passato che nel mondo contemporaneo si è fatto, per varie ragioni, difficile. Se fosse così, l’esortazione attuale alla memoria, che dalle istituzioni ufficiali tracima attraverso i media e il sistema educativo su tutta la società, sarebbe la via per tenere in vita quella «ricca eredità di ricordi» di cui parlava Renan. Le cose stanno invece in tutt’altro modo.
«Il passato che siamo tenuti, da un’ingiunzione, a non abbandonare all’oblio (o agli archivi)» ha scritto infatti Alain Finkielkraut «non è né un passato di gloria, di eroismo, di grandi cose né un passato di sacrifici e di sofferenze; è un passato semplicemente inassumibile. Tra Renan e noi, c’è stato il Novecento, ossia le guerre industriali, la morte di massa, i campi, il razzismo sterminatore». Dopo la Shoah ci viene chiesto di ricordare il nostro passato, ad esempio con apposite giornate, ma soltanto per condannarlo. Come ha scritto uno studioso francese, si è passati dall’obbligo di ricordare i «morti per la Francia» a quello di ricordare i «morti a causa della Francia». Che si tratti dello sterminio degli ebrei, del colonialismo, delle foibe, sono sempre gli orrori e i crimini che vanno ricordati. L’equilibrio fra ricordo e oblio di cui scriveva Renan è entrato in crisi, sostituito da un divieto assoluto di dimenticare, applicato però unicamente ai nostri crimini.
Questo atteggiamento verso il passato sembrerebbe avere un precedente nella condanna in blocco della storia dell’Occidente colonialista e imperialista che si affermò negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. «Schiacciati sotto il peso di questi ricordi infamanti» scriveva Pascal Bruckner in un libro di vari anni fa «siamo stati indotti a considerare la nostra civiltà come la peggiore». In realtà quell’atteggiamento di condanna di un passato di crimini, iniziati nel XVI secolo con i conquistadores spagnoli, era condiviso soltanto da una parte della società, e soprattutto da ambienti intellettuali; per giunta la condanna lasciava pur sempre aperta una possibilità di riscatto o di espiazione nel far propria la causa dei vari movimenti di liberazione dei popoli oppressi dall’Occidente (e, per la verità, anche delle dittature indigene che spesso avevano sostituito il dominio coloniale).
Nulla di simile, invece, in relazione al culto della memoria affermatosi in vari Paesi come una vera e propria religione civile. In questo caso la denuncia del passato criminale dell’Europa coinvolge la società intera, anche grazie al supporto di leggi che stabiliscono cosa e come ricordare. Non si può dubitare del fatto che la centralità assunta dalla Shoah nella coscienza europea contemporanea abbia mutato drasticamente il nostro sguardo sul passato. Tra le altre cose, ha spinto a estendere progressivamente il novero dei crimini: si pensi al caso del genocidio degli armeni, riconosciuto ufficialmente come tale in vari Stati nonostante gli storici non siano tutti concordi sul suo specifico carattere di genocidio (e questo ci ricorda anche quanto il culto della memoria tenga in scarsa considerazione il lavoro degli storici). Soprattutto, una visione del passato incentrata sul ricordo degli orrori e dei crimini sembra poco compatibile con quello sguardo comprensivo e positivo verso la propria storia che per Renan costituiva un requisito indispensabile per l’esistenza di una nazione.