Per una lettura non solo «rossa»
Risposta a Giampaolo Pansa sul libro «Possa il mio sangue servire» (Rizzoli). «Bisogna superare l’idea che tra gli antifascisti quelli che contavano erano solo i comunisti
Aldo Cazzullo Corriere della Sera 23 giugno
Attendevo con curiosità, avendo scritto un libro in difesa della Resistenza, la replica di Giampaolo Pansa, arrivata domenica dal suo Bestiario su «Libero». Curiosità dovuta al fatto che le critiche sono sempre più utili degli elogi, a maggior ragione quando provengono da un maestro di giornalismo. Oltretutto Pansa, cavallerescamente, ricorda la sera a Reggio Emilia in cui ci trovammo a fronteggiare gli energumeni venuti a impedire la presentazione del suo libro (Giampaolo tace i nomi dei colleghi che se la diedero a gambe; e anch’io taccio). Sulla Resistenza restiamo però in dissenso.
Il punto non è Piazzale Loreto. Fu un crimine: il corpo del nemico ucciso va sempre rispettato. La tesi su cui Pansa ironizza – il corpo di Mussolini fu esposto anche per comunicare a tutti, in epoca pre-televisiva, che il Duce era morto davvero e il fascismo davvero finito – non è mia, la cita Umberto Eco nel suo ultimo libro. Personalmente la trovo persuasiva. Tentare di capire il motivo di un fatto non significa giustificarlo; tanto meno può essere giustificato lo scempio che del corpo fu fatto.
Il punto è che Pansa, pur avendo intitolato una delle sue numerose autobiografie Il revisionista , pare fermo all’idea della Resistenza come «cosa di sinistra»: una guerra «combattuta tra due esigue minoranze»; e tra gli antifascisti quelli che contavano davvero erano i comunisti. « “La Resistenza è rossa” divenne lo slogan più urlato nelle celebrazioni del 25 aprile: in due parole descrivevano una realtà – sostiene Pansa -. Certo, la guerra partigiana non fu soltanto un affare dei comunisti. È una verità conosciuta da sempre». Forse conosciuta, ma a lungo taciuta, o passata in secondo piano. Invece è tempo di liberarsi dal senso comune della Resistenza sempre e solo rossa.
Intendiamoci: molti partigiani erano comunisti. Liquidarli come fanatici che volevano solo «fare dell’Italia un satellite di Mosca» è un’argomentazione perfetta per la polemica di oggi; ma all’epoca l’urgenza era scegliere da quale parte stare, con o contro i nazisti invasori. Molti comunisti diedero la vita. Molti tacquero sotto le torture. Altri ancora si macchiarono di crimini. In Possa il mio sangue servire ho dedicato un capitolo a Porzûs, dove partigiani comunisti uccidono partigiani «bianchi» delle brigate Osoppo: tra loro c’era Francesco De Gregori, lo zio del cantautore che ne porta il nome; e c’era Guido Pasolini, che prima di essere ammazzato scrive al fratello Pier Paolo per farsi mandare dalla madre un fazzoletto tricolore, perché vuole indossare quello e non «lo straccio rosso» (divenuto pudicamente in altri libri «lo straccio russo»); nel post-scriptum Guido chiede scusa al fratello, che sa essere bravissimo scrittore, perché non ha avuto tempo di rileggere la lettera, in quanto deve «salire in montagna immediatamente».
Non tutti i partigiani delle Garibaldi erano comunisti: molti erano ragazzi senza partito, che volevano sfuggire alla leva di Salò. Poi c’erano i partigiani cattolici, monarchici, socialisti, giellisti. Non era di sinistra Edgardo Sogno, che passò il resto della vita a combattere i comunisti, ma allora si batteva perché gli Alleati rifornissero anche i garibaldini, di cui riconosceva il valore. Non era di sinistra il generale Raffaele Cadorna (nipote del generale che prese Roma, figlio del comandante della Grande guerra), che si fece paracadutare con una gamba lesa nell’Italia occupata. Non era di sinistra Maggiorino Marcellin, il sergente degli alpini che in Val Chisone fronteggiò con mille uomini le SS e la Luftwaffe.
Non era di sinistra il colonnello Montezemolo, che guidò la Resistenza a Roma prima di essere torturato e ucciso alle Ardeatine. Non erano di sinistra i banchieri e gli industriali che per una volta portarono i soldi dalla Svizzera in Italia per sostenere la guerra di liberazione. Non erano di sinistra i tre carabinieri di Fiesole – Vittorio Marandola, Fulvio Sbarretti, Alberto La Rocca – che vanno a farsi ammazzare in una domenica di agosto, un pomeriggio pieno di sole, per salvare dieci ostaggi civili che non hanno mai conosciuto. Non era di sinistra don Ferrante Bagiardi, che quando vede fucilare 74 suoi parrocchiani sceglie di morire con loro dicendo: «Vi accompagno io davanti al Signore». Non era di sinistra suor Enrichetta Alfieri, che rischiò la vita per salvare i prigionieri dei fascisti a San Vittore: al processo di beatificazione testimoniarono due di loro, due pericolosi rivoluzionari: Indro Montanelli e Mike Bongiorno.
Il punto è che la Resistenza non è esaurita dalla guerra partigiana. Ci furono molti modi di dire no ai nazisti e ai loro collaboratori. Operai che scioperarono per boicottare la produzione bellica tedesca. Imprenditori che salvarono i loro operai dalla deportazione in Germania. Ferrovieri che rallentarono i treni per consentire ai deportati di saltare giù. Medici che firmarono certificati falsi pagando di persona. Francescani che aprirono i loro conventi agli ebrei. Contadini che non amavano i partigiani, ma fecero la scelta più rischiosa, accettando di aiutarli. E gli oltre 600 mila internati in Germania, che preferirono restare nei lager nazisti in condizioni drammatiche piuttosto che andare a Salò a combattere altri italiani. Quasi 90 mila militari morirono dopo l’8 settembre: i fucilati di Cefalonia, i bersaglieri che si batterono al fianco degli Alleati, e appunto le vittime dei lager. Di loro non si parla mai. È il momento di riconoscere che la Resistenza è patrimonio della nazione, non di una fazione.