Autore PAOLO PELUFFO
Editore: RIZZOLI Collana: BUR SAGGI
Pagine: 360 Prezzo: 9,90 euro
Anno prima edizione: 2012
Elzeviro – Corriere della Sera 3 maggio
Risentirsi italiani un giubileo laico
«La riscoperta della patria» di Peluffo
L’8 giugno 1943 Benedetto Croce scrisse un articolo per rilanciare l’amor di patria e lo spedì alla rivista «Italia libera» che, nonostante il prestigio del mittente, non lo pubblicò. Nel testo non c’erano echi del nazionalismo che aveva ubriacato il Paese nel ventennio mussoliniano: quel paradigma reazionario e regressivo era anzi aspramente condannato. Il filosofo liberale evocava la patria come valore ed esortava le forze politiche a riscoprirla, perché avrebbe reso «più agevole la necessaria concordia nella discordia» (dando appunto per scontato che i partiti «si combatteranno») e avrebbe loro indicato «il limite» oltre il quale non avrebbero dovuto mai spingersi.
Certo, nel ’43 metà del Paese era ancora sotto il tallone nazifascista e la parola patria richiamava un’insidiosa radice del regime. È servita una parentesi di mezzo secolo affinché la fase di secolarizzazione – chiamiamola così – si completasse e si potesse riproporla senza remore e complessi. Ha cominciato a farlo Carlo Azeglio Ciampi, per ricomporre il nostro «io diviso» e completare «il risanamento morale della società». Ha proseguito Giorgio Napolitano, raccogliendone il testimone nel 150° anniversario dell’Unità. Con loro al Quirinale si è attivata una nuova alfabetizzazione dell’identità italiana che sarebbe utile non interrompere. E non per smanie passatiste, ma per un più sano rapporto tra vita e memoria. Forse addirittura per affrontare la crisi globale dell’economia con un’arma in più.
È un’idea, questa, che affiora leggendo La riscoperta della patria (Bur, pag. 360, 9,90), riedizione arricchita di un saggio attraverso il quale Paolo Peluffo, già consigliere di Ciampi e poi consulente del comitato per il Giubileo laico appena concluso, spiega com’è ripartito il processo di nation building e analizza i dividendi del sentirci di nuovo comunità. Peluffo, che è stato «suggeritore, progettista e animatore» delle celebrazioni (così lo ringrazia Giuliano Amato nella prefazione), racconta il miracolo di un anniversario cominciato come «il più povero della nostra storia» e culminato con l’inaspettato successo di 13 milioni di tricolori alle finestre delle case italiane.
Un periodo durante il quale, accanto ad alcune «scoperte» (come il fortuito ritrovamento del manoscritto mazziniano con i prolegomeni della «Giovine Italia») e alla riabilitazione di moltissimi monumenti dimenticati, è maturato il progetto dei «luoghi della memoria». Un’azione di pietas repubblicana cui si è sommato uno slancio tutt’altro che retorico e che, anche sulla scia di una vecchia proposta di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, potrebbe (meglio: dovrebbe) sfociare in un «museo diffuso della storia d’Italia». In grado di far lievitare pure da noi il sentimento che Jules Michelet esprimeva con quello che in Francia è divenuto un modo di dire: la patrie est une personne. Ciò che nel caso nostro avrebbe il respiro di migliaia di persone, battaglie, lotte sociali, processi politici, percorsi d’arte, tutti con il fascino del mito. Si tratta di farli «dialogare» con le future generazioni secondo un criterio di narrazione sistematica, in grado di incrociare diverse discipline proprio come hanno fatto e stanno facendo francesi e tedeschi, le cui esperienze Peluffo ha studiato.
Ci sono un paio di appuntamenti da cogliere: il centenario della Grande Guerra, che per tutti, tranne noi, cade nel 2014. E quello che è ormai «l’imminente bicentenario del 2061». Per riuscire nell’impresa, e tanto più con poche risorse disponibili, bisognerebbe però abbandonare la politica dell’effimero che ha dominato gli ultimi decenni. Rimettendo la storia al centro delle nostre strategie culturali, come ci insegnarono Croce e Gramsci. Altrimenti resteremmo «sradicati e senza coscienza del tempo». Cioè, «schiacciati in un eterno presente».
Marzio Breda