Alberto Mantovani, 72 anni, direttore scientifico dell’Istituto Clinico Humanitas di Milano, è uno dei più noti immunologi a livello internazionale. In un articolo sul “Corriere della Sera” del 29 gennaio (Le armi di difesa sono i vaccini) ha scritto tra l’altro che «la più grande arma per combattere la minaccia dell’epidemia del Coronavirus, che proviene dalla Cina, è costituita dalle misure di contenimento del virus, dalla condivisione e trasparenza dei dati e dalla Ricerca scientifica. Il nostro Paese, grazie alla qualità della ricerca e dell’assistenza sanitaria, può giocare un ruolo importante: peccato che Ilaria Capua, che ha dato un contributo fondamentale all’identificazione dei virus aviari, sia stata costretta a lasciare l’Italia».
La virologa romana, eletta nel 2103 alla Camera dei Deputati nelle liste di Scelta civica, fu poi attaccata dal Movimento 5stelle per un presunto traffico illecito del virus dell’Aviaria, solo per aver informato il mondo scientifico dei dati relativi a quel tipo di influenza, individuato nell’Istituto Sperimentale zooprofilattico delle Venezie da lei diretto. Fu accusata di aver diffuso ceppi del virus per lucrare sulla vendita dei vaccini. Prosciolta successivamente da queste accuse, Ilaria Capua ha lasciato la Camera dei Deputati e nel settembre 2016 si è trasferita negli Stati Uniti, dove attualmente dirige un dipartimento dell‘Emerging Pathogens Institute all’ Università della Florida.
Questa vicenda, nonostante i pregiudizi antiscientifici, complottistici, moralistici e ideologici alla base di quella sciagurata inchiesta, dimostra l’eccellenza degli Istituti di ricerca sanitaria italiana e degli studiosi che vi lavorano, anche in seguito al processo di modernizzazione del nostro Paese in campo scientifico iniziato negli anni in cui si costruivano l’Unità e l’Indipendenza dell’Italia.
Lo sviluppo della cultura scientifica nell’età del Risorgimento costituì un importante elemento del processo che portò all’unità nazionale, contribuendo alla diffusione delle idee di libertà e di tolleranza. La frammentazione politica rappresentava il più grande ostacolo alla crescita della scienza italiana. Nel corso dell’età del Risorgimento gli scienziati svolsero un ruolo di primo piano non soltanto per l’importanza della loro attività di ricerca, ma anche per l’impegno in campo politico. Infatti, oltre a produrre contributi teorici di eccezionale livello e notevoli lavori sperimentali, furono impegnati in prima linea nei moti rivoluzionari e nelle guerre d’Indipendenza e ricoprirono importanti incarichi a livello istituzionale.
Nel campo della medicina e della salute pubblica, in Toscana abbiamo mirabili figure di medici che hanno vissuto la loro esperienza professionale in una relazione virtuosa tra ricerca scientifica e impegno patriottico e civile, in guerra come in pace. Ricordiamo in particolare Ferdinando Zannetti, che fu direttore del Museo fisiologico superiore di medicina e anatomia di Firenze per diversi anni. Combatté come volontario in qualità di soldato semplice nella I guerra d’indipendenza del 1848 a fianco delle truppe toscane e in seguito si occupò della direzione del servizio sanitario sul campo di Curtatone. Rifiutò la nomina a ministro della Pubblica istruzione per partecipare all’Assemblea Costituente e ricoprì il grado di generale comandante della Guardia nazionale. Con la restaurazione dei Lorena fu accusato di tradimento e gli fu tolta la cattedra universitaria. Caduta la dinastia lorenese nel 1859, fu di nuovo a capo del servizio sanitario dell’armata toscana. Sempre nel 1859 fu chiamato a far parte della Consulta e fu deputato di Firenze all’Assemblea toscana; nel 1860 fu nominato senatore del Regno. Ripresa la cattedra di Clinica chirurgica da cui era stato precedentemente rimosso, aggiunse nuova fama al suo nome quando nel 1862 estrasse la pallottola dal piede di Garibaldi in Aspromonte.
Ma al buon nome dell’Italia in campo scientifico hanno contribuito tanti fisici, chimici, biologi e medici, più o meno noti, che si sono posti al servizio della nazione con modestia e talora eroicamente, dagli anni Risorgimento nazionale fino all’era della globalizzazione.
In questi anni di ricorrenti allarmi a livello internazionale sull’insorgere di pandemie virali con numerose vittime – anche se non paragonabili ai milioni di morti causati dalla Spagnola dopo la Grande Guerra – va ricordata la figura eroica del medico marchigiano Carlo Urbani. Dopo essersi laureato in medicina nel 1981 all’Università di Ancona, si specializza in malattie infettive a Messina. Nel 1993 diventa consulente dell’Organizzazione mondiale della Sanità e nello stesso anno entra in Medici senza frontiere. Nel 2000 gli viene dato un incarico triennale da parte dell’Oms in Vietnam. In qualità di infettivologo, il 28 febbraio del 2003 viene chiamato dall’ospedale francese di Hanoi per un caso grave di polmonite atipica. Urbani capisce subito che non è una malattia virale conosciuta. Si impegna per isolare il reparto, l’ospedale, e soprattutto avverte l’Oms, che si attiva per aiutarlo a individuare e studiare il virus alla base della malattia che fu chiamata Sars (Severe Acute Respiratory Syndrome). Ma l’11 marzo 2003, durante un volo da Hanoi a Bangkok, Urbani si sente febbricitante e scopre di avere contratto il morbo: all’atterraggio chiede quindi di essere immediatamente ricoverato e messo in quarantena. Fino alla fine si dimostra sempre dedito alla salute altrui: ai medici accorsi dalla Germania e dall’Australia dice di prelevare i tessuti dei suoi polmoni, per analizzarli e utilizzarli per la ricerca. Muore il 29 marzo 2003, dopo 19 giorni di isolamento, a soli 46 anni. Senza di lui non avremmo le conoscenze che abbiamo oggi sulla Sars. Grazie a lui il virus non si è diffuso ulteriormente.
In un famoso aforisma Bertold Brecht scrisse “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”. Beato invece il popolo italiano, la cui storia è ricca di eroi – tra i quali scienziati e medici – e di èlites politico-culturali che hanno contribuito a costruire, pur tra luci e ombre, una sua identità nazionale.
Sergio Casprini