Pierluigi Battista Corriere della Sera
Si parla finalmente della scuola italiana che boccheggia, dell’università che annaspa, della ricerca che si impoverisce. Sarebbe un bene, se non fosse che se ne parla solo perché il ministro dell’istruzione Fioramonti si è dimesso. Poi, purtroppo, la cappa del silenzio politico coprirà ogni discussione pubblica su un tema che dovrebbe essere cruciale per la qualità stessa della nostra democrazia. Finito il clamore sullo stato del governo, la scuola tornerà ad essere, a destra e a sinistra, con eguale insipienza, la cenerentola dei problemi italiani, l’ultima voce di un’agenda politica del tutto indifferente alle sorti dell’istruzione. È di poco tempo fa l’allarme della rilevazione Ocse-pisa, secondo la quale gli studenti italiani sono tra i peggiori in Europa in quanto a comprensione di un testo. Ma, come scrivono Gianna Fregonara e Orsola Riva sul numero di «7» attualmente in edicola, mentre in Francia, per dire, «per risultati molto più lusinghieri si è aperta una riflessione pubblica sul fallimento dell’école républicaine», da noi il dibattito su quei risultati così sconfortanti è durato solo poche ore, nonostante, aggiungono, «la scuola sia stata addirittura il primo capitolo del discorso di insediamento del premier Conte». Un po’ di virtuose declamazioni retoriche e nulla più.
La politica ha smesso da tempo di interrogarsi sulla missione che la scuola dovrebbe assolvere, sul suo significato, sul suo ruolo cruciale in una società aperta e dinamica, ma anche terribilmente esposta alla marea di falsificazioni, di manipolazioni, di mistificazioni che funestano e inquinano lo spazio pubblico. C’è qualche ragione per cui i genitori mandano a scuola i figli che non sia il luogo dove parcheggiarli? Gli insegnanti sono frustrati e depressi: sentono che il loro ruolo è sempre più svilito, sempre meno riconosciuto, sempre meno socialmente apprezzato per la funzione delicata che dovrebbe svolgere. Tra i ceti più svantaggiati, lo dicono spietatamente i numeri e le statistiche, cresce la tentazione di non faticare più per mandare i figli all’università perché tanto, dicono, è inutile, tanto l’ascensore sociale si è bloccato, tanto si fa fortuna in altri modi, tanto non ne vale più la pena: è una sconfitta per l’idea stessa della democrazia, dove l’istruzione è fondamentale, il talento deve essere riconosciuto, le origini sociali non possono essere di ostacolo alle libere scelte degli studenti meritevoli. Ma c’è qualcuno che chiede di far ripartire il meccanismo delle borse di studio per garantire il principio democratico e liberale dell’uguaglianza dei punti i partenza, delle pari opportunità, del merito come criterio dell’avanzamento sociale e culturale? Le politiche dei governi si limitano invece a fare della scuola un «postificio», un po’ di sistemazione dei precari, un po’ di prepensionamenti, un po’ di indicazioni pedagogiche astruse e farraginose. Ma un giovane che oggi volesse intraprendere la professione dell’insegnante quali possibilità ha di realizzare i suoi progetti, quanti decenni di precariato ha davanti a sé? Il ministro dell’istruzione che si è appena dimesso aveva chiesto all’inizio del suo mandato 3 miliardi per la scuola. Ma nessuno gli ha chiesto: per farci che cosa. Il «che cosa» sparisce dall’orizzonte, si tratta solo di finanziare l’esistente. Ma questo esistente palesemente non funziona. La scuola come agenzia educativa perde colpi. Molti docenti confessano addirittura di cominciare ad avere la paura fisica di entrare nella scuola, dove il «gruppo dei pari» si organizza secondo logiche di clan in cui il bullismo diventa pratica diffusa. Svanisce la certezza degli stessi principi di selezione, e si stenta a capire per quale ragione nelle scuole del Sud ci siano molti meno bocciati che nelle scuole del Nord. È legittimo il sospetto di due pesi e due misure?
Una politica che non sia schiacciata sul politicismo del presente dovrebbe comprendere che quella scolastica è un’emergenza nazionale, che il senso di sfiducia e di frustrazione che si addensa attorno alla scuola, all’università e alla ricerca è una mina che esplode intaccando l’idea stessa di una democrazia moderna. Poi, concluse le scaramucce nei governi, ci saranno nuove declamazioni retoriche, i discorsi delle cerimonie, gli impegni mai rispettati. Ma la scuola continuerà ad essere la cenerentola, l’ultima della lista. Come al solito.