Recentemente due proposte del governo hanno riacceso la polemica sulla questione meridionale e cioè sul divario economico e sociale tra il Nord e il Sud, non ancora superato a 162 anni dalla nascita del Regno d’Italia.
Pochi giorni fa il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha accennato alla possibilità di tenere conto del “carovita” nella retribuzione dei docenti che lavorano nelle regioni settentrionali, dato che nel sud il costo della vita è inferiore, di fatto riproponendo quelle differenze retributive che esistevano in Italia negli anni ’50 del secolo scorso.
Chi risponde al ministro che nel sud i servizi pubblici – per esempio quelli sanitari –sono molto meno efficienti e per questo sarebbero giustificate le stesse retribuzioni sia al Nord che al Sud, conferma che il processo di modernizzazione del nostro Paese, nato con il Risorgimento, si è fermato a Eboli.
Lo scorso novembre il Ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli ha presentato alle regioni la bozza di disegno di legge sulla cosiddetta “autonomia differenziata”, di cui all’articolo 116 della Costituzione. Con “autonomia differenziata” si intende la possibilità che le regioni a statuto ordinario possano ottenere competenza legislativa esclusiva su materie che la Costituzione elenca invece come “concorrenti” o, in tre casi, su quelle di esclusiva competenza statale. Per molti costituzionalisti e soprattutto esponenti politici del Meridione l’annosa questione tra centralismo statale e autonomia regionale non sarebbe risolta dalla proposta di Calderoli, anzi verrebbe meno il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione, in quanto i diritti perderebbero il loro carattere di universalità, previsto a garanzia dell’unità e indivisibilità della Repubblica. Se questa bozza fosse davvero improntata a una logica competitiva più che solidaristica, volta a favorire Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna che per prime hanno richiesto l’autonomia differenziata, si rischierebbe di consolidare la situazione di un’Italia divisa tra un settentrione forte sul piano economico-produttivo e un meridione ancora arretrato e sostenuto dai sussidi dello Stato. Invece di interrogarsi sulle possibili soluzioni di questo divario, in queste polemiche emerge una contrapposizione ideologica o peggio di latente razzismo tra “terroni” e “polentoni”. Che peraltro ha una lunga storia: nel 1860 il politico emiliano Luigi Farini così scriveva a Cavour: «Amico mio, che paesi sono mai questi, il Molise e la Terra del Lavoro! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni [sic], sono fior di virtù civile». Va pure detto che negli anni del Risorgimento ci fu un’élite culturale meridionale che al momento dell’unificazione nazionale chiese interventi urgenti da parte dello Stato centrale per affrontare le condizioni di degrado economico e sociale del Sud.
Tra gli altri, il napoletano Pasquale Villari, politico, storico e docente presso l’Istituto di Studi superiori di Firenze, fu tra i primi a studiare la questione meridionale e a pubblicarne i risultati nell’opera Lettere meridionali. L’interesse per il tema lo portò poi a collaborare alla Rassegna settimanale dei politici toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, autori di una famosa inchiesta in Sicilia, pubblicata nel 1877, in cui si denunciava «l’inestricabile intreccio tra le miserabili condizioni di vita dei contadini e le malversazioni amministrative delle caste dominanti». Con la rivista “Rassegna settimanale” l’intento dei due era quello di far conoscere le condizioni di vita del Meridione e di render consapevole la società italiana che l’economia del Sud doveva essere riequilibrata, anche per porre fine al pericoloso malcontento delle masse contadine, con l’estensione in primo luogo della rappresentanza politica, mediante il suffragio universale da estendere anche alle donne, e nel favorire l’industrializzazione del paese.
Anni dopo il pugliese Gaetano Salvemini, allievo di Pasquale Villari, al X Congresso del PSI celebrato a Firenze nel settembre del 1908, parlò a nome della maggioranza dei delegati delle sezioni meridionali. Nel suo discorso per la prima volta la «questione meridionale» non era il fondamento recriminatorio di domande di risarcimento per le ingiustizie patite, ma il terreno decisivo su cui si giocava un destino effettivamente nazionale del partito e la possibilità di garantire un fondamento davvero democratico al Paese. In particolare, nel pensiero di Salvemini la questione meridionale era intimamente connessa alla questione scolastica e al concetto di educazione nazionale: in quest’ottica la scuola era vista dall’intellettuale pugliese nel suo ruolo di formazione di un’opinione pubblica – fino ad allora assente specialmente nel Sud – che avrebbe permesso di maturare una solida coscienza nazionale.
Purtroppo ancora oggi, nonostante la maggior diffusione della cultura, il dibattito pubblico si riduce troppo spesso allo scontro di tifoserie politiche e di fazioni ideologiche, senza entrare nel merito delle questioni e nella concretezza delle soluzioni da adottare. E carente è soprattutto la scuola nella formazione di una forte coscienza nazionale delle nuove generazioni, a partire dallo studio rigoroso della storia e dalla valorizzazione del ruolo dei docenti sul piano retributivo, per dar loro la possibilità di vivere dignitosamente sia al Sud che al Nord, avendone ovviamente accertata l’acquisizione di valide competenze professionali.
Sergio Casprini