Svettante su un colle che domina il paesaggio, è stata l’ultima villa costruita dai Medici ed occupa un posto singolare non solo nella storia delle dimore della famiglia delle sei palle, ma anche in quella del costume e del vino. Merito di Ferdinando I, il Granduca che la volle e la fece costruire, e di Cosimo III, che un secolo dopo la riportò allo splendore e non solo.
La villa è ad Artimino, detta la Ferdinanda, nota anche come la villa dei cento camini, anche se sono solo una quarantina, camini ognuno diverso dall’altro e che danno grazia e leggerezza al grande tetto e al profilo del massiccio edificio. Tutto cominciò con Cosimo il primo Granduca, che nella zona di Artimino comprò terreni per ingrandire il «Barco Reale», cioè la grande bandita di caccia dei Medici che dal crinale del Monte Albano e dalle pendici del poggio di Artimino arrivava fino a Vinci e a San Baronto. La riserva di caccia, ricca di boschi, era completamente circondata da un muro alto due metri e lungo ben 52 chilometri, di cui oggi restano molti ruderi ma anche tratti ancora integri e una grande porta d’accesso, e il poggio di Artimino si trovava in una posizione strategica per le cacce. Cacce che erano la passione dell’ex cardinale Ferdinando, «spretatosi» e tornato da Roma a Firenze per diventare Granduca dopo la morte del fratello Francesco I e dell’odiata Bianca Cappello nella villa di Poggio a Caiano, tanto che Ferdinando decise di costruirsi un «casino di caccia» sul terreno che era di fronte al piccolo borgo medievale del luogo. E proprio mentre cacciava il Granduca affidò all’architetto Bernardo Buontalenti, che cavalcava al suo fianco, l’incarico di costruire, il più rapidamente possibile la villa. Così nel 1596 il Buontalenti si mise all’opera e in quattro anni la villa fu completata, senza parco attorno, solo con un prato, proprio per godere appieno del «Barco Reale» e di quella che Ferdinando, scrivendo alla moglie Cristina di Lorena definiva «la Primavera di Artimino».
La villa ha le facciate rivolte una verso Artimino e l’altra verso Firenze, al piano terreno grandi ambienti in cui si poteva entrare anche a cavallo, così da ospitare comitive di cacciatori, sotto cantine e un tunnel scavato nella roccia che serviva anche come uscita di sicurezza, al primo e al secondo piano gli ambienti nobili e al primo piano l’aerea loggia — detta dei Paradisi ed affrescata da Domenico Cresti, il Passignano, che decorò anche gli ambienti interni — era collegata da una scala al prato che circondava la dimora. Agli angoli i quattro torrioni angolari sporgenti, che le davano un aspetto militare, e sul tetto i celebri comignoli, ognuno collegato con una stanza così da poter riscaldare i singoli ambienti, e le stanze erano arredate con cura e affrescate, come la cappellina e il Ricetto del Poggiolo, il vano per la toilette della Granduchessa.
Cuore della vita di corte erano il Salone delle Ville e il Salone delle Guerre, entrambi al primo piano. Il salone delle Ville si chiamava così perché ospitava le 17 lunette di Giusto Utens sulle ville medicee, commissionate proprio da Ferdinando che voleva fare della sua amata villa l’epicentro dei possedimenti medicei, 3 delle quali sono però andate perdute compresa quella che raffigurava la Villa di Artimino. Ancora peggio è andata con le 17 lunette per l’altro salone, raffiguranti le battaglie che avevano reso grandi i Medici e ampliato i loro domini, completamente perdute, mentre le 14 opere superstiti di Utens sulle Ville sono oggi riunite ed esposte nella Villa medicea della Petraia. La villa era anche decorata dalle «Bellezze di Artimino», oltre sessanta ritratti di nobildonne fiorentine, romane e napoletane, appartenenti alla corte medicea i cui vestiti e gioielli sono «fotografati» con precisione mostrandoci la moda del tempo. Realizzati tra il 1599 e il 1608, furono eseguiti per Cristina di Lorena, in due formati, ritratti fino al petto o fino ai gomiti e oggi conservati agli Uffizi.
Ferdinando I però ebbe poco tempo per godersi villa, cacciagioni e Primavere. Morì nel 1609, la villa passò al suo quartogenito, il principe Don Francesco e alla sua morte a Cosimo II, primogenito di Ferdinando I e nuovo Granduca, che però si recò poche volte ad Artimino. All’inizio del Seicento Galileo Galilei vi soggiornò tre mesi nel 1608 come precettore di scienze matematiche del futuro granduca Cosimo II, ma presto i Medici si disamorarono della villa. Solo da 1670, con l’inizio del governo di Cosimo III la villa tornò all’antico e non solo il Granduca vi organizzava battute di caccia, ma ne incrementò le entrate realizzando aziende agricole e ampliando do la già esistente coltura della vite, che vantava radici nel periodo etrusco. Nacque così un vino a base di Sangiovese detto «il nettare di Artimino», borgo che era nella zona di Carmignano, e Cosimo III lo ha fatto entrare nella storia della viticoltura quando il 24 settembre 1716 emanò il bando che delimitava le zone di produzione del Chianti, del Pomino, del Valdarno di Sopra e del Carmignano, fissando così le prime Doc, denominazione di origine controllata, al mondo. Violante Beatrice di Baviera, moglie di Ferdinando Maria de’ Medici, figlio primogenito di Cosimo III, fu l’ultima della famiglia Medici a frequentare Artimino e nel 1737, con la morte di Gian Gastone de’ Medici, la Ferdinanda e le proprietà medicee passarono ai Lorena.
Nel 1782 però il Granduca Pietro Leopoldo di Lorena vendetta la villa a Lorenzo Bartolomei, marchese di Montegiovi, che la acquistò con tutto ciò che conteneva — tranne alcuni mobili preziosi e le lunette dell’Utens che così non sono state disperse e sono «tornate alla luce» dopo essere rimaste a lungo nei depositi granducali prima e dello Stato poi — e il marchese provvide ben presto a vendere tutti mobili. Da privato a privato i passaggi di proprietà si sono susseguiti e e oggi è sede per eventi e matrimoni. Con la villa rimasta uguale a quella pensata da Ferdinando tranne un unico cambiamento rilevante, voluto dalla contessa Carolina Sommaruga: la sostituzione della scala originale, dritta e a rampa unica come mostra una stampa settecentesca, con la scalinata a doppia rampa arcuata che l’architetto Enrico Lusini realizzò sulla base di uno schizzo del Buontalenti conservato alla galleria degli Uffizi.
Mauro Bonciani Corriere Fiorentino 15 dicembre 2024