Un saggio di Massimo Crosti restituisce l’identità del leader dell’Italia unita più vicino a Cavour.
Sarà perché mi sono sempre sentito vicino a quell’Italia di minoranza, raccontata da Giovanni Spadolini in un suo libro di quarant’anni fa (lo pubblicò Le Monnier nel 1983), ma c’è una cosa che mi ha sempre colpito di Francesco Saverio Nitti. Da un lato, il suo impegno per costruire un ponte politico che avvicinasse l’ala più aperta della destra liberale e la nuova realtà sociale e politica scaturita dalla società industriale; dall’altro, l’esiguità dei consensi che sempre riuscì a raccogliere. Consapevole, ben più di Giolitti, della irriducibilità del movimento fascista, non riuscì a far condividere il tessuto integrativo che ne poteva, forse, impedire il successo. E fu il primo degli esuli.
Eppure, fra i leader dell’Italia unita fu di sicuro il più vicino a Cavour. Come lui guardava all’Inghilterra, come lui scorgeva nelle riforme fatte tempestivamente l’antidoto alla crescita dei movimenti eversivi, come lui si rivolgeva alla sinistra più prossima per condividere analisi e prospettive. Quando ancora aveva ventisei anni, aveva fondato una rivista, «La riforma sociale», che prendeva le distanze dalla visione degli economisti classici (portata da Antonio de Viti de Marco e da Matteo Pantaleoni sul «Giornale degli economisti») e sosteneva che la protezione del lavoro non nuoceva alla competitività, ma – come dimostrava l’esempio inglese – poteva addirittura accrescerla. Propugnava la redistribuzione della ricchezza e il ruolo propulsivo dello Stato per realizzarla attraverso, in primo luogo, lo sviluppo. Esortava i socialisti a uscire dalla loro “ricetta unica” del collettivismo. Ma i socialisti non erano, evidentemente, i riformisti moderati di Rattazzi, che avevano aderito al connubio. Turati stesso fu sempre diffidente davanti a «La riforma sociale». E sebbene, nel 1920, si provasse a convincere il suo partito a seguire Nitti, l’incontro con Nitti non ci fu.
C’è questo, e c’è anche molto altro nel libro di Massimo Crosti su Nitti interprete del Novecento; con una prefazione di Francesco Barbagallo, che ne sottolinea proprio la continuità con Cavour. C’è, come dice il sottotitolo, l’analisi del pensiero politico e molta attenzione è dedicata a La democrazia di Nitti, di cui Crosti difende il valore teorico, criticando chi la considera un’opera di sola battaglia. La si pensi come si vuole, certo si è che per Nitti la democrazia si fonda non solo sul processo elettorale, ma sul perseguimento dell’eguaglianza, sulla diffusione della ricchezza, sull’istruzione. E di essa per lui fa anche parte il voto alle donne, a partire dalle donne analfabete del Sud, come sua madre (di cui –con una uscita famosa alla Camera – garantì un voto ben più consapevole di quello delle gran dame dei salotti del Nord).
C’è naturalmente il Nitti uomo di Stato riformista, che riempie la stagione dello stesso Giolitti: con l’intuizione delle amministrazioni non ministeriali a cui affidare i nuovi compiti, a partire dall’Ina, con l’impegno pubblico per l’energia elettrica e l’acciaio, con la formazione di una nuova classe dirigente pubblica a forte connotazione tecnica. Ed ecco Vincenzo Giuffrida, Bernardo Attolico e su tutti Alberto Beneduce, che cominciò la sua collaborazione con Nitti, elaborando per lui il progetto dell’Ina.
Ma c’è una qualità ulteriore di Nitti che Crosti segnala (e documenta), quella che lui chiama «preveggenza» e che è, in realtà, la capacità di leggere le conseguenze non viste delle vicende in corso. La prima testimonianza è proprio nella valutazione del fascismo, di cui Nitti (e non Giolitti) coglie le radici nell’inasprito conflitto di classe, che ne impediranno il riassorbimento nella tradizionale dialettica dei vecchi partiti. Poi c’è la testimonianza più famosa, quella del suo libretto L’Europa senza pace del 1921, che lo affiancò a Keynes (autore di Economic Consequences of the Peace, uscito nel 1919) nel profetizzare le conseguenze a cui avrebbe portato in Germania la dura politica delle riparazioni adottata alla Conferenza di pace di Versailles. Infine, c’è, meno nota, la lettera che lui scrisse a Mussolini, esortandolo a non entrare in una guerra, che sarà perduta. Era il 1939.
Il Nitti rientrato in Italia nel secondo dopoguerra, pur incaricato da De Nicola di formare un governo nel maggio 1947 (incarico che non ebbe successo), parteciperà da estraneo alla Assemblea Costituente. Era la sua democrazia quella scritta negli articoli 2,3 e 4. Ma l’organizzazione di essa, fondata da un lato sul pluralismo, dall’altro sulla lezione degli anni 30 –l’argine da opporre al potere della maggioranza – lo troverà lontano, addirittura ostile. Vedrà nella proporzionale, nelle regioni, nella Corte costituzionale novità foriere della dissoluzione dello Stato.
È una conclusione amara, questa, per un percorso di vita le cui tappe erano state cruciali per la modernizzazione e la crescita dell’Italia. Eppure, è una conclusione coerente per un uomo la cui appartenenza all’Italia di minoranza non lo portò mai a identificarsi con un piccolo partito (non avrebbe osteggiato la proporzionale, se fosse stato così). No, il ponte in cui si cimentò non era per pochi, era per tenere accostati i lembi di una società divisa, creando le condizioni necessarie a renderla coesa. Fu lasciato solo, il fascismo si installò sulla spaccatura e quel compito divenne la missione della Repubblica. Che riuscì a realizzarla, salvo poi smarrirla con l’arrivo della società fratturata di oggi. Ed oggi ci manca un Nitti, che ci dia una traccia per ritrovare l’insieme che abbiamo perduto.
Giuliano Amato Sole 24 Ore domenica 14 luglio 2024
Autore Massimo Crosti
Editore Editoriale Scientifica
Anno 2024
Pagine 218
Prezzo € 16,00