Carlo Liucci Sole 24 ore 29 maggio
Per Primo Levi, la «zona grigia» era l’ambigua terra di nessuno fra bene e male, emersa nei campi di sterminio, ove «quanto più dura è l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere». Ma la categoria della «zona grigia» sarà in tempi più recenti adottata anche dagli storici, per inquadrare quanti avevano vissuto da spettatori la Resistenza del 1943-45, con la speranza che la «nuttata» passasse presto. Una massa di attendisti, destinata a esercitare un peso elettorale maggioritario nella nuova repubblica, antifascista soltanto sulla carta. Ora Carlo Greppi, giovane studioso torinese, presenta un suggestivo case study, incentrato sulla città sabauda nel 1943-45. Attorno alla lugubre caserma-prigione di via Asti, luogo deputato a fucilazioni e torture indicibili, ruotano diverse storie. Storie di vittime, di carnefici, ma soprattutto di «uomini in grigio», moralmente impreparati ad affrontare la tempesta addensatasi sulle loro teste.
Vorremmo tutti identificarci nella cristallina biografia di Bruno Segre, partigiano oggi quasi centenario. Ma a incarnare l’Italia profonda era soprattutto il brigadiere Antonio M., il vero protagonista di queste pagine.
Ultima ruota del carro nell’apparato repressivo repubblichino, costui tenne sempre il piede in due scarpe, barcamenandosi sino alla fine tra aguzzini e resistenti (nell’autunno del ’45, una Corte straordinaria di Assise lo condannerà a dieci anni di reclusione per «aiuto al nemico nei suoi disegni politici»).
Come valutare il volume di Greppi? Da un lato, non si può non apprezzare lo scavo compiuto dall’autore (memorie, documenti giudiziari, epistolari inediti), per riportare alla luce questa varia umanità. Possiamo così contemplare un panorama assai più problematico di quelli cui ci avevano abituati sia la mistica della lotta di Liberazione sia il reducismo di Salò, entrambi restii ad ammettere che la guerra civile fosse stata combattuta da due opposte minoranze, davanti a una platea di «imboscati». Invece, piaccia o meno, uno dei pilastri della nostra identità nazionale risiede proprio nella «zona grigia»: come dimostrerà il successo riscosso nel dopoguerra dall’«apota» Montanelli, il quale nel romanzo autobiografico Qui non riposano (settembre 1945) vergherà un esplicito elogio del colore grigio, «appunto perché non è né bianco né nero».
Dall’altro lato, suscita qualche perplessità il «montaggio» effettuato da Greppi. C’erano due modi per valorizzare questa messe documentaria: o con un libro pienamente narrativo e avvincente, alla Corrado Stajano, in grado di catapultarci nel clima plumbeo dell’epoca; oppure con un saggio storiografico in senso stretto, forse più arido ma anche più scrupoloso. Greppi ha scelto una via di mezzo, sfornando un lavoro né carne né pesce. Un intarsio aggrovigliato di storie, delle quali il lettore fatica a seguire il bandolo. Peccato, perché la carne da mettere sul fuoco era molta.