Villa di Poggio Imperiale – Un appartamento della residenza fiorentina di Pietro Leopoldo
Il Consiglio regionale della Toscana con la legge N. 26 del 21 giugno 2001 ha istituito come festa della Toscana il giorno 30 novembre per ricordare la data in cui il granduca Pietro Leopoldo abolì col Codice leopoldino la pena di morte, la tortura e le pene corporali.
Solo il Comune di Lucca fino al 2009 non ha celebrato la festa perché fin dal 2000 il Consiglio comunale a maggioranza si dissociava non per rifiutare il valore civile della celebrazione, ma per ricordare che la Toscana non era tutta sotto il granducato e Lucca in particolare era una repubblica. Indubbiamente il Codice leopoldino fu il risultato più alto raggiunto in Europa durante l’età dei lumi. Estrapolare l’abolizione della pena di morte, della tortura e delle pene corporali dal clima culturale e politico della seconda metà del ‘700 significa ridurla a un atto filantropico, dovuto alla generosità e all’umanità del granduca. In realtà tutto il codice è ispirato dal dibattito che la cultura illuministica aveva aperto su tutti gli aspetti della vita civile e politica. Si trattò di un vasto e profondo movimento riformatore che investì molti stati europei nei quali il paternalismo illuminato dei sovrani aveva consentito un rinnovamento radicale della società, dell’economia e della religione. Pietro Leopoldo era figlio di Maria Teresa d’Austria e fratello di Giuseppe II, al quale successe nel 1790 per mancanza di eredi diretti, e la sua politica nel granducato trovava corrispondenze in quella della madre e del fratello. Fu così che anche in Toscana furono presi provvedimenti per l’abolizione della manomorta e del maggiorascato, per la liberalizzazione del commercio dei grani. Le riforme trovavano fondamento nella ragione, unica guida per l’agire umano secondo gli illuministi. L’azione di governo di Pietro Leopoldo in Toscana cominciò nel 1765 e l’impronta che dette col suo governo, grazie all’appoggio di una classe dirigente illuminata, doveva fare della Toscana uno degli stati italiani più progrediti. Furono anni di grande fervore ma anche di contrasti perché le riforme leopoldine andavano a sradicare privilegi secolari. Soprattutto in campo ecclesiastico le resistenze furono molto forti per la soppressione di quegli istituti religiosi non utili al pubblico bene che mise sul mercato proprietà fondiarie da rendere fruttuose grazie agli investimenti con capitali freschi e alle nuove tecniche di coltivazione. Come suo fratello Giuseppe II, il re sagrestano, si interessò delle pratiche religiose abolendone molte secondo le indicazioni del vescovo di Pistoia e Prato Scipione de’ Ricci.
Pietro Leopoldo ( a sinistra) e suo fratello Giuseppe II ritratti a Roma da Pompeo Batoni 1769
Questo spirito riformatore presente nella cultura fiorentina del tempo in collegamento con i centri illuministici di Milano e Napoli, fece sì che la prima edizione dell’opera di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene, avvenisse a Livorno nel 1764. Il sistema giudiziario, che si inseriva nella più vasta opera di riorganizzazione dell’amministrazione statale, era oggetto di un vasto dibattito sia in Italia che in Francia, dove il saggio di Beccaria fu tradotto subito ed ebbe grande successo.
Beccaria si soffermava molto sull’utile che alla società viene da un sistema giudiziario ben organizzato in cui la rieducazione del reo attraverso la pena riporti alla vita civile un essere umano che può dare il suo contributo al bene comune. L’attenzione alla realtà di Beccaria distingue tra peccato e reato: il primo è pertinente alla religione, il secondo è un danno alla società. Per questo è inutile la tortura e, come l’esperienza dimostra, anche la pena di morte non è un deterrente contro il crimine. La posizione di Beccaria fu unica, altri riformatori come Gaetano Filangieri nella Scienza della legislazione, non contemplavano l’abolizione della pena di morte. Alla vigilia della rivoluzione francese la riforma del codice operata da Pietro Leopoldo appare indubbiamente la più avanzata, quella che aveva fatto tesoro di un dibattito aperto e vivace e aveva avuto il coraggio di andare contro pratiche giudiziarie che neppure l’autorità religiosa aveva mai osato condannare. Purtroppo l’abolizione della pena di morte durò poco. Nell’aprile del 1790, un mese dopo la partenza del granduca per Vienna, dove divenne imperatore del Sacro Romano Impero col nome di Leopoldo II, scoppiarono gravi tumulti in tutto il granducato, soprattutto a Firenze e a Livorno. Gli elementi più retrivi del clero, che mai avevano accettato le riforme di spirito giansenistico di Pietro Leopoldo, sobillarono la popolazione in nome del ripristino di forme tradizionali di religiosità che sconfinavano nella superstizione, mentre la liberalizzazione del commercio dei grani veniva considerata causa di miseria. Il reggente Serristori riuscì a placare gli animi solo ritirando alcune riforme. Questo provocò la reazione di Leopoldo II che, prima di insediare come suo successore il figlio Ferdinando III il 22 febbraio 1791, reagì con una dura repressione che portò al ripristino della pena di morte, che i suoi successori mai più avrebbero abolito. Infatti Ferdinando III nel 1815 e l’ultimo granduca Leopoldo II nel 1852 emanarono codici militari in cui le pene corporali sono puntigliosamente previste anche per mancanze non gravi. Fu solo il Governo provvisorio, che il 30 aprile 1859, pochi giorni dopo la fine del granducato, abolì nuovamente la pena di morte rifacendosi alla legge di Pietro Leopoldo e rivendicando con orgoglio che la Toscana era stata la prima ad abolire la pena di morte: Considerando che fu la Toscana la prima ad abolire in Europa la pena di morte, / Considerando che se questa venne in seguito ristabilita lo fu solamente quando le passioni politiche prevalsero sulla maturità de’ tempi e alla mitezza degli animi / Considerando però che quantunque per tal modo ripristinata non venne applicata giammai perché fra noi la civiltà fu sempre più forte della Scure del Carnefice: / Ha decretato e decreta. / Articolo uno. La pena di morte è abolita.
1859 Saverio Altamura La prima bandiera italiana portata a Firenze
La memoria del Codice leopoldino rimase viva anche nei decenni successivi e non si perse neppure negli anni più bui della storia italiana. Mentre in tutto il mondo anche paesi di radicata tradizione democratica conservavano e applicavano la pena di morte, l’opinione pubblica specialmente in Toscana esprimeva la sua condanna. Il modo migliore per darle voce fu quello di rivendicare con una legge che la Toscana per prima aveva abolito la pena di morte. Così nell’art. 2 della legge regionale del 2001 si afferma che la Festa ha lo scopo di far meditare sulle radici di pace e di giustizia del popolo toscano, per coltivare la memoria della sua storia, per attingere alla tradizione di diritti e di civiltà che nella regione Toscana hanno trovato forte radicamento e convinta affermazione, per consegnare alle future generazioni il patrimonio di valori civili e spirituali che rappresentano la sua originale identità rigorosamente inserita nel quadro dell’unità della Repubblica Italiana, rispettosa dei principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
La legge non è solo un segno di orgoglio campanilistico perché il richiamo all’unità della Repubblica Italiana rimanda alla tradizione dei valori risorgimentali ma non meno importante è quello alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: la cultura illuministica, caratterizzata da un cosmopolitismo per il quale nessun europeo si sentiva completamente straniero fuori della sua patria, è stata fondamentale per dare a tutti gli uomini e le donne la consapevolezza di essere soggetti portatori di diritti universali.
Alessandra Campagnano
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea