Il nostro Inno nazionale, diventato tale per legge solo nel dicembre 2017 (senza però entrare ancora in Costituzione accanto al Tricolore), è stato a lungo snobbato e persino svillaneggiato, soprattutto a partire dal ‘68. E si capisce: l’idea di Patria venne spazzata via dagli internazionalismi pacifisti o proletari; le guerre diventarono tutte indistintamente “inutili stragi”, con l’eccezione dei profitti di cui l’industria bellica era pronta ad abbuffarsi; di conseguenza, l’essere “pronti alla morte” se chiamati dall’Italia era per molti diventato incomprensibile e persino riprovevole. Il testo (di cinque strofe, ma l’inno nazionale ne usa solo la prima) fu attaccato non solo perché inattuale, ma anche perché considerato insopportabilmente retorico. Certo, un po’ di retorica c’è per forza, l’understatement non si addice agli inni; ma esprime bene il patriottismo di Goffredo Mameli, un ventenne entusiasta (e “pronto alla morte”) di metà Ottocento.
Un altro motivo per cui l’inno fu malvisto arrivò con la nascita della Lega Nord, che giudicava dannosa l’unificazione nazionale e per anni agitò la minaccia della secessione. Per questo, com’è noto, propose di sostituirlo con Va pensiero, il celeberrimo coro cantato dagli ebrei deportati in Babilonia, assimilati alle popolazioni “oppresse” della Padania. (Uno dei critici più autorevoli della proposta fu Riccardo Muti. Questo canto è stupendo, disse in sostanza, non è però adatto a diventare l’inno nazionale: troppo mesto, oltre che troppo lungo; in un inno “si deve sentire il fuoco di una nazione, deve svegliare degli ardori”. E aggiunse: “Immaginatevi il Va pensiero allo stadio con gli azzurri sull’attenti, e poi le parole Oh mia patria sì bella e perduta… Si perde la partita.”)
Comunque l’Inno di Mameli sopravvisse, anche se un po’ ammaccato. (E sarebbe l’ora di cominciare a chiamarlo l’Inno di Mameli e Novaro, che lo musicò; sennò è come se dicessimo che Acqua azzurra, acqua chiara è di Mogol senza citare Battisti). Però la sua definitiva consacrazione popolare è merito indiscusso della Presidenza di Carlo Azeglio Ciampi (1999 – 2006), che esortò gli atleti azzurri a cantarlo. Grazie lui, il Canto degli Italiani, che è il suo nome di battesimo, e il Tricolore hanno messo più profonde radici nella coscienza degli italiani. Giorgio Napolitano ha continuato l’opera di Ciampi puntando soprattutto al rafforzamento dell’identità e della coesione nazionale, di cui l’inno e la bandiera sono espressione. Poi è stato un crescendo.
Nel 2020 l’hanno cantato dalle finestre e dalle terrazze gli italiani confinati in casa dalla pandemia. Nelle manifestazioni sportive, quando ci sono vittorie azzurre, l’inno non lo cantano solo gli atleti, ma anche gli spettatori italiani, che lo accompagnano battendo il ritmo con le mani, a volte coinvolgendo anche chi italiano non è; e se siamo in Italia è un momento più di festa collettiva che di solenne compostezza. In questi giorni, negli Europei di nuoto che si svolgono a Roma, grazie alle tante medaglie d’oro conquistate, l’inno italiano è risuonato molte volte ogni giorno. Il pubblico lo canta a squarciagola, saltando e ridendo mentre grida “siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”. Per concludere con un tonante “Siiiì” a mani alzate.
È il trionfo dell’Inno di Mameli (e Novaro), diventato un inno, se non alla Gioia, che esiste già, all’allegria di essere Italiani.
Giorgio Ragazzini