Autore Paolo Mieli
Editore Rizzoli
Collana Saggi Italiani
Anno 2018
Pagine 350
Prezzo € 20,00
I lampi che guizzano nel cielo della storia non servono solo a rischiarare questo o quel periodo. Spesso sono scintille che si sprigionano all’improvviso, fiamme che divampano per ustionare le nostre convinzioni, incendi che bruciano la complessità del passato e ci lasciano soli con le nostre semplificazioni. Nel suo ultimo libro, Lampi sulla storia. Intrecci tra passato e presente (Rizzoli), Paolo Mieli non ha paura del fuoco, anzi lo affronta con la convinzione di chi paventa che i pregiudizi nascano soprattutto dalla perdita del senso della storia. O il passato lo facciamo nostro, interrogandolo e spiegandolo, ma, beninteso, senza anacronismi e alterazioni deformanti, o la storia e il bisogno di essa non hanno più alcun senso.
Fra le varie discipline scientifiche, la storia è quella più soggetta a un principio epistemologico fondamentale: se cambia l’angolo visuale, cambia anche l’interpretazione del periodo analizzato. E come può, per uno storico, cambiare il punto di vista? Mieli elenca alcune di queste distorsioni. Sia ben chiaro: se un ricercatore scopre un documento inedito, è giusto che molte cose vengano messe in discussione: la storia è viva proprio perché si compone e si ricompone nel tempo. Ma se la deformazione nasce da una moda, come quella del «politicamente corretto»? L’America della political correctness ha deciso di rimuovere le statue dei generali sudisti. È capitato a Charlottesville, in Virginia, dove gruppi suprematisti hanno poi dato vita a tragiche proteste. Anche Cristoforo Colombo è simbolo di divisione razziale per il trattamento riservato ai nativi. Le sue statue vengono abbattute dalla «cultura del piagnisteo». Così Robert Hughes definiva già nel 1993 quell’attitudine secondo cui si procede negando la realtà e dando tutto il potere a formule verbali o comportamenti che deformano in modo grottesco ciò che è.
Per non parlare delle forzature. Mieli ricorda i conti che Papa Francesco ha dovuto fare con le controversie generate dall’intreccio tra passato e presente per la beatificazione di un gesuita nato a Maiorca nel 1713, Junípero Serra. Oggi quel prete viene dipinto come un genocida, un edificatore non di anime ma di campi di concentramento. Ma il traviamento più grande per uno storico è usare, per il passato, categorie che appartengono al presente. La storia, sostiene Mieli, richiede un grande esercizio di sottigliezza fra ragione critica e verifica documentaria, senza prefigurare, nella ricostruzione critica del passato, corsi e ricorsi prestabiliti. Se mai, per circoscrive l’incendio delle «revisioni», bisognerebbe far ricorso con finezza intellettuale alla «legge dell’oblio» («Il ricordo è per quelli che hanno dimenticato», sosteneva Plotino).
Scrive Mieli: «Oblio che non deve equivalere a una sciatta dimenticanza che metta torti e ragioni del passato sullo stesso piano, bensì a non far riproporre quei torti e quelle ragioni nelle contese del presente. Si deve saper rinunciare a mettere la propria comunità in condizione di riaprire antiche ferite. È un esercizio complicato quello di tenere fermo il giudizio sul passato, anzi di renderlo ogni giorno più denso di valori e, a un tempo, di imparare a rispettare il passato stesso in tutta la sua complessità. E c’è una sola strada per raggiungere questo obiettivo: consegnare la storia agli storici, cioè a coloro che sono interessati esclusivamente ad analizzarne le dinamiche e a scriverne nuove pagine».
Il libro raccoglie vari saggi disposti secondo tre grandi categorie: «Dentro le apparenze» (niente è come appare, ci sono personaggi o fatti storici che sembrano composti unicamente di facciata, come case non finite o come il set di un film); «Forzature e deformazioni» (ci sono zone di confine, non solo della storia ma anche della riflessione sulla storia, dove oscillano verità altrimenti negate); e infine «La storia capovolta» (anche la storia a volte è colpita dallo smacco dell’assurdo: «Cosa vuol dire capovolgere la storia? Spesso significa porsi gli interrogativi giusti. E se fosse stato Socrate stesso a decidere di morire?»).
I libri e i personaggi che entrano con eleganza nel laboratorio di Mieli sono molti e disparati, ma tutti raccordati da un filo rosso concettuale. La perdita del senso della storia, in un’epoca come la nostra ossessionata dall’informazione dei social media, sta per trasformarci in arroganti prigionieri di un linguaggio pietrificato: crediamo facilmente solo a ciò di cui abbiamo bisogno di credere. Ed eccola la galleria di personaggi illustri con cui misurarsi, una quadreria che va da Robespierre a de Gaulle, dal giovane Gramsci al maresciallo Pétain, da Federico II di Svevia a Caterina de’ Medici, da Cesare Beccaria a Pio XI, da Giustiniano a Bernardino da Siena, solo per citarne alcuni.
Accanto alla produzione saggistica, Mieli unisce una solida presenza televisiva. Quante volte lo abbiamo apprezzato come conduttore de La Grande Storia, un programma che in Italia ha trasformato la televisione da semplice evocatrice di memoria a strumento di narrazione storica. Ma la vera svolta avviene nel 2017 con la rubrica quotidiana Passato e presente. Il programma si occupa di fatti storici e ha una struttura dialogica (un professore invitato in studio è interpellato da tre giovani studenti universitari) fondata su un principio ormai minoritario: l’autorevolezza. Cultura in tv, come viene interpretata dalla conduzione di Mieli, non significa riempirsi la bocca di date e di nomi, significa invece creare suggestioni, stabilire connessioni (connettere vuol dire unire cose distanti, produrre un pensiero), affidarsi alla competenza.
Ma c’è un passo ulteriore, ancora più decisivo. Attraverso la struttura dialogica di Passato e presente, Mieli introduce in Italia il concetto di public history, che non è soltanto divulgazione o comunicazione della storia, è anche formazione degli individui (dottorandi, masterandi, giovani ricercatori) che porteranno la storia attraverso nuovi media a diversi pubblici, è anche interrogarsi su quale sia l’utilità e la funzione della storia nella sua nuova dimensione pubblica. Lo sappiamo, spesso la storia è fatta soprattutto da persone che dentro l’università scrivono non pensando troppo alla diffusione, alla scambievolezza con i pubblici più vasti e diversi. Quello che invece la public history intende fare è reinventare un ruolo sociale dello storico, ponendolo al centro della comunità nella quale e con la quale riflettere di storia. Questo è l’elemento civile della public history: la capacità di portare verso il pubblico una riflessione e un metodo rigorosamente storico, ma che l’accademia ha concentrato nella figura non di rado fantasmatica della «comunità scientifica» (magari solo a fini concorsuali).
Nel contesto statunitense, per esempio, la public history ha recentemente acquisito un suo statuto dignitario, entrando di fatto nei curricula universitari con l’intento di formare professionisti della comunicazione storica. La stessa idea di public history supera la vecchia categoria di divulgazione: se, da un lato, il concetto sta nominalmente a indicare una vera e propria invasione della storia nella sfera pubblica, dall’altro esso indica il cammino verso un pubblico non specialista, ma sempre più esigente, globalizzato e tecnologicamente avanzato.
Aldo Grasso Corriere della Sera 15 ottobre