L’idea di Italia era già viva prima dell’800 E anche le classi umili parteciparono in armi a moti come le Cinque giornate di Milano
Aldo Cazzullo Corriere della Sera 21 Aprile 2020
Ogni occasione importante ci conferma che noi italiani siamo più legati all’Italia di quanto pensiamo. C’è un’appartenenza espressa nei giorni scorsi nelle forme popolari degli applausi e dei canti dai balconi, che — tranne qualche chiassoso esibizionismo — hanno manifestato uno spirito di resistenza e di comunità.
Esiste un’identità italiana definita dalla musica — anche popolare —, dalle imprese sportive, da una cultura materiale in cui Nord e Sud si sono ormai compenetrati. È un patrimonio che affiora nei momenti cruciali della storia; non ce ne dobbiamo vergognare, anzi, dobbiamo salvaguardarlo come una ricchezza.
Però noi italiani siamo legati alla storia nazionale quando incrocia la storia delle nostre famiglie. Per noi, più che per altri popoli, la patria è davvero la terra dei padri, e delle madri. Questo spiega perché il 25 aprile continua a essere discusso — non tutti i nostri padri stavano dalla stessa parte — e il centenario della Grande guerra non è stato forse ricordato come meritava: i fanti del Piave sono tutti morti.
Ma se c’è un periodo oggi da riscoprire, dimenticato da quasi tutti e denigrato da molti, è il Risorgimento.
L’Italia esisteva già, da molto prima che divenisse uno Stato. L’idea dell’Italia nasce dalla cultura e dalla bellezza, da Dante e da Giotto, passa attraverso il Rinascimento e rifiorisce in un secolo straordinario, che ci restituisce finalmente uno Stato unitario: l’ottocento. Non è stato il Risorgimento a fare l’Italia, ma l’Italia a fare il Risorgimento. Ugo Foscolo si commuove a Santa Croce davanti al sepolcro di Vittorio Alfieri: «E l’ossa fremono amor di patria». Giacomo Leopardi vede il monumento che i fiorentini stanno elevando a Dante e scrive: «Volgiti indietro, e guarda, o patria mia/ quella schiera infinita d’immortali/ e piangi e di te stessa ti disdegna;/ che senza sdegno omai la doglia è stolta./ Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,/ e ti punga una volta/ pensier degli avi nostri e de’ nepoti». Alessandro Manzoni compone Marzo 1821 per onorare il coraggio di chi in piena Restaurazione si ribellava all’impero austriaco. Giuseppe Verdi si precipita a Roma per festeggiare la Repubblica assistendo al suo Macbeth al teatro Argentina: gli spettatori lo acclamano in piedi. Ippolito Nievo, uno dei Mille, moriva prima di veder pubblicate le Confessioni di un italiano: «Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista san Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo». L’idea nazionale fa discutere pensatori e statisti del livello di Rosmini, Gioberti, Balbo, D’azeglio, Cavour, Mazzini, Cattaneo, Settembrini, Poerio.
Non è vero però — come si ripete spesso — che il popolo italiano sia assente dal Risorgimento. In un Paese di analfabeti, molto meno popolato e molto meno collegato dell’Italia di oggi, in cui le polizie dei vari Stati sorvegliano, arrestano, torturano, impiccano i patrioti, il sogno dell’unificazione conquista anche artigiani e operai. Nel 1848 insorgono le grandi città della penisola, da Palermo a Venezia, dove a guidare l’insurrezione sono gli arsenalotti. Non sarebbero bastati i «sciuri» per cacciare gli austriaci da Milano: quando alla fine delle Cinque giornate Carlo Cattaneo va all’obitorio a vedere i corpi degli oltre 400 caduti, esamina le loro mani, e vede che sono mani callose, di operai e manovali.
Gli italiani, per la prima volta dopo secoli, mostrano di essere pronti a combattere, e di saperlo fare. Radetzky deve rioccupare le città venete una a una, tranne Verona dove le truppe austriache sono di stanza (e sarà una Verona in festa quella che le giubbe bianche lasceranno nel 1866, sparando per sfregio sulla folla e uccidendo una donna incinta, Carlotta Aschieri, 25 anni). Sovrani intimoriti, se non apertamente ostili all’unità, non possono impedire la partenza di volontari da Firenze, da Roma, da Napoli, ansiosi di unirsi all’esercito piemontese. Si muove persino l’armata pontificia, per quanto sconfessata poco dopo dallo stesso Pontefice. Più in generale, quando il 24 giugno 1859 gli austriaci sono battuti a Solferino e San Martino, crolla tutta l’impalcatura del loro dominio sulla penisola, e le loro truppe si mostrano per quel che erano: un esercito di occupazione.
Quanto a Giuseppe Garibaldi, al tempo era l’uomo più famoso del mondo. Ovunque ci fosse un popolo oppresso, nelle case c’era il suo ritratto, i cortei scandivano il suo nome, le mamme mandavano a letto i bambini raccontando come in una fiaba che il giorno dopo sarebbe potuto arrivare un generale italiano a sanare le ingiustizie. Fu lo stesso Cavour — che lui non sopportava, ricambiato — a riconoscerlo: «Garibaldi ha reso agli italiani il più grande dei servigi che un uomo potesse rendergli: ha dato agli italiani fiducia in sé stessi, ha provato all’Europa che gli italiani sapevano battersi e morire sui campi di battaglia per riconquistarsi una patria». E noi non dovremmo essere orgogliosi di uomini così?