Pier Luigi Vercesi Corriere della Sera 18 ottobre
Provvide Benito Mussolini a fornire la migliore attestazione d’indipendenza intellettuale alla Scuola Normale superiore di Pisa: «Un nido di vipere» da «tollerare per non far morire di crepacuore» Giovanni Gentile, il filosofo che riformò la scuola italiana. L’antica istituzione non era un cenacolo anti-regime, era semplicemente un’isola dove i clamori della piazza restavano fuori; studenti e professori cercavano di mantenere un’autonomia di pensiero «giustificata» dall’assoluta dedizione agli studi. La Normale, in epoca fascista, era l’unico luogo in Italia dove partire volontari per una guerra voluta dal Capo poteva costare l’espulsione. Ovvio che Mussolini la definisse: «Una locanda i cui dozzinanti pensano di considerare cultura minore quella della rivoluzione», riferendosi, naturalmente, a quella fascista.
La Scuola era nata da un’altra rivoluzione, quella francese: doveva essere una succursale dell’École normale supérieure di Parigi e formare insegnanti. La definizione «Scuola Normale» derivava appunto dalla sua funzione, vale a dire trasmettere agli studenti «norme» che li rendessero idonei all’insegnamento nella scuola secondaria, ovvero «superiore». Il decreto di fondazione porta la data del 18 ottobre 1810, ma l’attività didattica cominciò solo nel ’13, quando la stella di Napoleone era già al tramonto. Operò per un solo anno, salvo rinascere, nel 1846, per decisione del granduca Leopoldo II, e assumere una valenza nazionale con l’Unità d’Italia. Da allora di strada ne ha fatta, se tra i suoi allievi si contano tre premi Nobel (Enrico Fermi e Carlo Rubbia per la Fisica e Giosuè Carducci per la Letteratura) e due presidenti della Repubblica (Giovanni Gronchi e Carlo Azeglio Ciampi), nonché molte delle più brillanti intelligenze italiane.
La Normale, in estrema sintesi, è un grande collegio universitario dove vigono regole severe sul rendimento, la vita comunitaria di studio e lo sviluppo delle capacità analitiche e critiche verificate attraverso una tesina discussa ogni anno. È una scuola competitiva ed elitaria. Era e resta uno dei rari templi italiani del tanto sbandierato merito che tutti evochiamo a parole. L’ammissione avviene per test che privilegiano la capacità di affrontare problemi complessi piuttosto che il mero accumulo di nozioni. Si ispira al proposito originario di selezionare un cenacolo intellettuale «né di ricchi, né di poveri: tutti uguali, perché tutti liberi da cure materiali» — la Scuola provvede al mantenimento degli studenti. L’aspetto elitario non è dunque basato sul censo o sul conto corrente dei genitori, ma sul privilegio di far parte, per qualche anno della propria vita, di una comunità dove ci si può permettere di faticare esclusivamente per la propria formazione intellettuale. I normalisti sono orientati agli studi umanistici o scientifici puri, non a quelli applicati; chi ambisce a futuri lavori ben retribuiti, non passa per questa strada. Raccontata così, la Normale sembrerebbe un’isola alla deriva in una società dove l’ignoranza è sbandierata come un «valore», tutti possono fare tutto anche senza conoscenze e competenze, la politica si impone per slogan e cavalcando paure indotte, la propria realizzazione si misura in euro. Al contrario, è una diga necessaria al declino del Paese.
Come scriveva Hannah Arendt nel suo Origini del totalitarismo: non rispondere in maniera adeguata, quando i tempi lo richiedono, significa mostrare una mancanza di immaginazione e di attenzione pericolose. Ci è parso di individuare un pensiero simile nella prolusione del prof. Vincenzo Barone, direttore della Normale, il quale osserva: «In Italia c’è un problema. L’appiattimento. Si preferisce sacrificare le eccezioni ad alto rendimento per non discriminare la media generale, in nome di un presunto principio di equità che forse nasconde una incapacità congenita di valorizzare ciò che è diverso. Ma privilegiare la media significa condannare il Paese alla mediocrità». Così il nuovo anno accademico viene inaugurato con un dibattito dal titolo: «Insieme diversi: l’era delle differenze, il tempo dell’inclusione». Perché è l’ignoranza che spinge ad escludere, dall’alto e dal basso. Se l’élite aiuta a includere, ben venga.
È una scuola competitiva ed elitaria. Era e resta uno dei rari templi che premiano le capacità