Elena Loewenthal La Stampa 25 gennaio 2020
In Israele vige un’ossessione per i numeri. Nulla a che fare con equazioni complesse o numeri astronomici: il conto è quello del censimento. Un popolo vissuto per millenni sul filo dell’estinzione ha bisogno di sapere che esiste anche nella quantità. Qualche anno fa, il censimento si è meritato titoli cubitali in prima pagina, di quelli che si usano solo per le grandi catastrofi, gli eventi epocali nel bene e nel male: allora la popolazione ebraica aveva, seppure di poco – qualche migliaia di anime – superato i 6 milioni. «Abbiamo sconfitto la Shoah!», dicevano più o meno così tutti i giornali, registrando un’emozione collettiva profonda, quasi indescrivibile.
In L’Europa senza ebrei, l’ultimo libro di Giulio Meotti in uscita per Lindau (pp. 174, € 16), il giornalista offre un quadro devastante della presenza ebraica in Europa. Dalla Francia ai Paesi Scandinavi, dall’Olanda all’Italia, il lettore trova qui sostanzialmente due cose: per un verso l’inarrestabile calo della popolazione ebraica, per l’altro una lunga serie di episodi di violento antisemitismo.
È vero, i numeri dell’ebraismo europeo sono in drastico calo. Gli ebrei sono sempre meno: in Italia davvero pochissimi, un’inezia nel panorama demografico, neanche 24.000 in tutto lo Stivale, isole comprese. Ma sono tante, e complesse, le ragioni di questa esiguità, tanto italiana quanto europea. Matrimoni misti, assimilazione, e certo anche l’emigrazione verso Israele, magari sulla spinta della paura – come è accaduto in Francia all’indomani dei terribili attentati, da Charlie Hebdo al Bataclan.
È dunque molto vero il quadro che descrive Meotti: gli ebrei sono sempre meno. Ma, al di là dell’allarme, si tratta forse di confidare nelle risorse di sopravvivenza – demografica, culturale, storica – che il popolo d’Israele ha sempre saputo mobilitare. Esiste infatti una specie di indecifrabile alchimia, o forse di fede tenace, che accompagna da sempre il corpo a corpo degli ebrei con la storia, con le innumerevoli avversità, con l’ostinazione del pregiudizio. Soprattutto con quella condizione esistenziale anomala che è stata, ed è tuttora la Diaspora.
E poi c’è la questione dell’antisemitismo: davvero più all’ordine del giorno che mai, dal secondo dopoguerra. Ma l’antisemitismo è, più che degli ebrei, una questione dell’Europa, dei conti con la storia recente ancora in gran parte da fare. Per questo è necessario vigilare con tanta fermezza quanto equilibrio, senza mettere in gioco i valori della libertà e della responsabilità. L’antisemitismo è il vero «tradimento dell’Occidente», come dice il sottotitolo del libro: il fatto che in Francia e altrove si possa ancora essere assassinati per il semplice fatto di essere ebrei, il fatto che in Germania e altrove sia diventato rischioso andare in giro per le strade con una kippah sulla testa dimostra che l’Occidente ha tradito e continua a tradire sé stesso. Ha un che di assurdo, l’antisemitismo oggi. Eppure è reale, tangibile. Meotti ne enumera una preoccupante serie di casi, nel passato più recente. Perché davvero gli ebrei sono i canarini nella miniera di carbone, i primi a subire le mortifere esalazioni di metano e monossido di carbonio. Poi, però, tocca agli altri. Perché, oltre a essere un disvalore di per sé, il pregiudizio antiebraico è immancabilmente un campanello d’allarme, l’innesco di una catena della violenza, fisica o verbale che sia.
Che fare? Difficile somministrare ricette preconfezionate. Ma forse il primo passo è proprio quello della consapevolezza: capire che l’antisemitismo non riguarda tanto gli ebrei e quel loro destino funambolico che fino ad ora l’ha avuta vinta sulla storia, a dispetto di tutto, quanto l’Europa. Con le sue tragedie passate e presenti, i suoi valori, la sua memoria e le sue amnesie, la sua determinazione ad affrontare il futuro.