Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera 4 maggio
Per l’anniversario del 25 aprile il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha presenziato a una cerimonia alla Fosse Ardeatine in rappresentanza del governo. Ma anche il M5S ha reso omaggio a quel luogo, scelto come meta per una biciclettata a sostegno di Virginia Raggi. Come mai le Fosse Ardeatine sono ancora al centro delle commemorazioni? Sergio Galli, Bergamo
Caro Galli, Le Fosse Ardeatine sono diventate nella vita pubblica italiana il necessario contraltare del monumento al Milite ignoto, il secondo pilastro della ideologia italiana. L’Italia ufficiale rende omaggio al Vittoriano quando vuole celebrare il Risorgimento, l’unità nazionale, la vittoria del 1918. Ma deve visitare le Fosse Ardeatine quando vuole ricordare che la Resistenza è un secondo Risorgimento, il simbolo doloroso del riscatto morale della nazione.
È molto probabile che i devoti del Vittoriano abbiano opinioni alquanto diverse da quelli delle Fosse Ardeatine. Ed è molto probabile che queste divergenze, in molti casi, riflettano giudizi diversi sull’attentato di via Rasella: atto eroico per una parte del Paese, inutile provocazione per altri. Ma i rappresentanti delle istituzioni sanno che entrambi i simboli, se il Paese vuole restare unito, sono diventati ormai indispensabili e che nessuno dei due può essere trascurato a vantaggio dell’altro. Giova all’immagine delle Fosse Ardeatine, inoltre, il fatto che le vittime fossero straordinariamente rappresentative della collettività italiana: monarchici e repubblicani, comunisti e liberali, civili e militari, borghesi e popolani, ebrei e cristiani.
La storiografia, nel frattempo, continua a scavare nelle vicende di quei giorni. Una studiosa della Università di Pavia, Donatella Bolech Cecchi, ha ora pubblicato per le edizioni Rubbettino un libro su un diplomatico tedesco, Eitel Friedrich Moellhausen, che era a Roma come console generale di Germania,quando l’attentato di via Rasella, il 23 marzo 1944, uccise 33 soldati tedeschi del reggimento di polizia SS Bozen e fece qualche decina di feriti. Il racconto di Donatella Bolech Cecchi è particolarmente interessante là dove descrive il dibattito delle autorità tedesche sulla rappresaglia. Il generale Kurt von Maelzer, comandante militare della città, voleva radere al suolo l’intero blocco di case fra via Rasella e via Quattro Fontane. Moellhausen e Dollmann, collaboratore del generale Wolff, comandante della Waff-SS, si opposero. Maelzer, furioso, si appellò al maresciallo Kesselring comandante in capo delle forze tedesche in Italia. Si formarono così due partiti: quello che voleva una rappresaglia diffusa contro la popolazione civile e quello dei «moderati» che temevano le reazioni popolari. Furono persino avviati i preparativi per la deportazione di migliaia di uomini, voluta da Himmler, ma i militari obiettarono che l’operazione avrebbe comportato l’uso di due divisioni in un momento in cui nessun reparto poteva essere allontanato dal fronte. Moelhausen, nel frattempo, continuava a ripetere che «la Germania non poteva trattare Roma come un agglomerato di selvaggi; mai la storia glielo avrebbe perdonato».
La formula adottata, alla fine, fu quella di Kesselring: dieci italiani per ciascuno dei morti tedeschi, da scegliere fra i «Todeskandidaten», vale a dire fra coloro che erano già stati condannati a morte o erano comunque passibili di una tale condanna. Fu questa una delle ragioni per cui Kesselring fu condannato a morte da un tribunale britannico a Venezia il 6 maggio 1947. Ma la sentenza, grazie a un intervento di Winston Churchill, fu successivamente rivista e il condannato tornò in libertà nell’ottobre del 1952. Un anno dopo apparvero le sue memorie intitolate Soldat bis zum Letzten Tag (Soldato sino all’ultimo giorno).
Sergio Romano