Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera 16 ottobre
Risulta strano, al giorno d’oggi, capire le motivazioni del tentativo di sradicazione dell’identità culturale delle popolazioni in molte regioni bilingui a seguito (dopo il 1918) dell’annessione all’Italia. Leggendo la storia familiare di Lilli Gruber (Eredità), ci si rende conto che non solo i nomi dei luoghi vennero cambiati: una sua prozia, Hella, fu registrata come Elena e condannata a 5 anni di confino in Basilicata per aver insegnato il tedesco a figli di parenti e amici. Raul Pupo, nel libro Il lungo esodo, riporta un manifesto affisso nei locali pubblici dell’Istria: «Si proibisce in modo più assoluto che nei ritrovi pubblici e per le strade si canti o si parli in lingua slava». Pure la famiglia di mia nonna (a casa parlava il dialetto istro-veneto e scriveva un perfetto italiano, imparato nelle scuole dell’Impero) dovette italianizzare il cognome da Ivancich in «Iviani», e i suoi cugini «Martinolich» furono registrati come «Martinoli».
Franco Cosulich
Nella politica linguistica italiana durante il regime fascista vi furono uno spropositato eccesso di retorica nazionalista e uno sgradevole odore di razzismo. La manipolazione dei cognomi e dei toponimi, a cui dettero la loro collaborazione alcuni esponenti del mondo accademico, fu una operazione maldestra e incivile. Ma per meglio collocare il fenomeno in una prospettiva storica, credo che occorra ricordare quale fu il ruolo della lingua nella trasformazione dello Stato dinastico in Stato nazionale fra il XIX e il XX secolo. Tutti i movimenti risorgimentali furono accompagnati dalla riscoperta delle origini culturali dei singoli popoli. In una delle sue odi più famose («Marzo 1821») Alessandro Manzoni definì l’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor». Dopo avere insegnato Dante e Petrarca a Zurigo, Francesco De Sanctis scrisse una Storia della letteratura italiana, pubblicata nel 1870, che divenne una sorta di manuale culturale delle università italiane nelle generazioni successive e un canone per l’insegnamento nelle scuole medie. Il fenomeno non fu soltanto italiano. L’unificazione linguistica degli Stati europei fu considerata particolarmente necessaria là dove esistevano numerosi dialetti e antichi linguaggi con forti radici locali. L’inglese scalzò il gaelico dall’Irlanda e dalla Scozia. Il basco e il catalano furono retrocessi a modeste parlate locali in un Paese dominato dal castigliano. Nonostante il successo internazionale di Frédéric Mistral (premio Nobel per la letteratura nel 1904), il provenzale dovette lasciare il passo al francese anche nelle terre occitane in cui era parlato da molti secoli. Il problema della unità linguistica divenne particolarmente delicato dopo la Grande guerra e la dissoluzione degli Stati multinazionali. Fra i 14 punti del presidente americano Woodrow Wilson vi era quello dell’autodeterminazione dei popoli. Le potenze vincitrici si divisero le spoglie degli Imperi defunti, ma dovettero fare i conti con le loro nuove minoranze e le trattarono spesso con sospettosa diffidenza. Temevano che non appena fossero state ufficialmente riconosciute e autorizzate a usare la loro lingua nei rapporti con le istituzioni e nelle aule di giustizia, avrebbero generato una classe dirigente e ciascuna di esse sarebbe divenuta uno Stato nello Stato. Il risultato di questa diffidenza furono i tragici esodi di popolazioni alla fine della Seconda guerra mondiale. Oggi, caro Cosulich, il clima politico e culturale è cambiato. Esistono ancora minoranze che si considerano discriminate e chiedono maggiore autonomia, se non addirittura indipendenza; ma esiste anche, fortunatamente, una Unione Europea a cui tutte, anche quelle più agitate e bellicose, non intendono rinunciare.
Sergio Romano