L’articolo di Paolo Mieli, tratto dal Corriere della Sera del 10 gennaio.
Fin da quando salì al trono nel novembre del 1830, Ferdinando II concepì la presenza del Regno delle Due Sicilie sullo scacchiere europeo come quella di un’entità politica in crescita. Benedetto Croce, nella Storia del Regno di Napoli (Adelphi) notava che, nelle intenzioni di Ferdinando II, il regno doveva essere un organismo politico «nelle cui faccende nessun altro Stato avesse da immischiarsi, tale da non dar noia agli altri e da non permetterne per sé». Così, proseguiva Croce, il figlio di Francesco I «guardingo e abile si avvicinò alla Francia, si liberò della tutela dell’Austria, che aveva sorretto e insieme sfruttato la monarchia napoletana, e mantenne sempre contegno non servile verso l’Inghilterra che era stata la protettrice e dominatrice della sua dinastia nel ventennio della Rivoluzione e dell’Impero». Ma l’Inghilterra riteneva che l’aver difeso i Borbone ai tempi di Acton e di Napoleone le desse i titoli per poter ottenere una totale subalternità da parte di Ferdinando II. E dava segni di fastidio per quel «contegno non servile» di cui parlava Croce.
Fu così che Ferdinando II nel 1834 firmò (inconsapevolmente) la condanna a morte del suo regno. Quell’anno, 1834, nel pieno della «prima guerra carlista» (1833-1840), Ferdinando rifiutò di schierarsi a favore di Isabella II contro Carlo Maria Isidro di Borbone-Spagna nel conflitto per la successione a Ferdinando VII sul trono iberico. Dalla parte di Isabella, figlia di Ferdinando VII, e contro don Carlos, fratello del re scomparso, erano scese in campo Francia e Inghilterra, che considerarono quello del regime borbonico alla stregua di un vero e proprio atto di insubordinazione. Londra ci vide, anzi, qualcosa di più: il desiderio del Regno delle Due Sicilie di elevarsi, affrancandosi da antiche subalternità, al rango di medio-grande potenza. E da quel momento iniziò a tramare per destabilizzarlo. La storia di questa trama è adesso raccontata da un importante libro di Eugenio Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee (1830-1861) , che sarà presto pubblicato da Rubbettino.
Già nelle pagine della premessa a questo volume (che rende omaggio, con un’esplicita dedica, a Giuseppe Galasso e al suo Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale, edito da Utet), Di Rienzo si rende conto del fatto che la pietas per il destino del regno borbonico lo espone al rischio di trasformare il suo racconto in quella che Benedetto Croce definì «storia affettuosa», simile alle «biografie che si tessono di persone care e venerate». O anche a quelle che sempre Croce definiva le «storie che piangono le sventure del popolo al quale si appartiene». Un rischio, scrive Di Rienzo, «forse tale da portare acqua al mulino di quell’Anti Risorgimento vecchio e nuovo» che – e qui cita il Giorgio Napolitano di Una e indivisibile (Rizzoli) – «con fuorvianti clamori e semplicismi continua a immaginare un possibile arrestarsi del movimento per l’Unità poco oltre il limite di un Regno dell’Alta Italia di contro a quella visione più ampiamente inclusiva dell’Italia unita, che rispondeva all’ideale del movimento nazionale (come Cavour ben comprese e come ci ha insegnato Rosario Romeo)». Però, prosegue Di Rienzo, a «chi ha scelto la professione di storico», non si può chiedere di «non ricordare che l’unione politica del Sud al resto d’Italia avvenne senza il consenso ma anzi contro la volontà della maggioranza delle popolazioni meridionali». E non lo si può esortare a «passare sotto silenzio come quell’unione, che per vari decenni successivi al 1861 non fu davvero mai “unità”, sia stata, in primo luogo, il risultato di un complesso e non trasparente intrigo internazionale in cui la Potenza preponderante sullo scacchiere mediterraneo contribuì a porre fine, una volta per tutte, alle velleità di autonomia del più grande “Piccolo Stato” della Penisola, giustificando una delle prime e più gravi violazioni del Diritto pubblico europeo della storia contemporanea». Parole molto forti: quella dell’Inghilterra nei confronti del Regno delle Due Sicilie sarebbe stata «una delle prime e più gravi violazioni del Diritto pubblico europeo della storia contemporanea».
Da lungo tempo il Regno Unito non aveva nascosto un grande interesse per la Sicilia. Giovanni Aceto nel volume De la Sicile et de ses rapports avec l’Angleterre (1827) scriveva: «Quest’isola non rappresenta per l’Inghilterra soltanto un importante avamposto strategico, da preservare, ad ogni costo, da una possibile occupazione della Francia che la minaccia dalle sue coste, ma costituisce anche il centro di tutte le operazioni politiche e militari che l’Inghilterra intende intraprendere nell’Italia e nel Mediterraneo».
Un segnale al Regno di Napoli fu mandato nell’estate del 1831, quando fanti inglesi sbarcati dalla corvetta «Rapid» proveniente da Malta, condotta dal tenente di vascello Charles Henry Swinburne, occuparono l’isola Ferdinandea, un lembo di terra di circa quattro chilometri quadrati emerso dal mare tra Sciacca e Pantelleria, che si sarebbe nuovamente inabissato nel dicembre di quello stesso anno (la storia è stata ben raccontata da Salvatore Mazzarella in Dell’isola Ferdinandea e di altre cose , pubblicato da Sellerio, e in L’isola che se ne andò di Filippo D’Arpa, edito da Mursia). Un gesto del tutto sproporzionato data l’assoluta irrilevanza dell’isolotto. Ma che voleva essere un segno inequivocabile nei confronti di un’isola ben più importante, la Sicilia. Sicilia da cui l’Inghilterra importava vino, olio d’oliva, agrumi, mandorle, nocciole, sommacco, barilla e soprattutto zolfo usato per la preparazione della soda artificiale, dell’acido solforico e della polvere da sparo. Zolfo che fu all’origine di un contenzioso dal quale uscirono ulteriormente deteriorati i rapporti anglo-napoletani: ne venne fuori quella che Ernesto Pontieri – nei saggi raccolti in Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell’Ottocento (Esi) – ha definito una «politica di rancori, di insidie, di mal celata avversione verso uno Stato (il regno borbonico) che non senza ragione conservava rispetto all’Inghilterra immutata la sua diffidenza».
Ai tempi della rivoluzione del 1848, quando, il 13 aprile, il General Parlamento di Palermo, dopo aver dichiarato la decadenza della dinastia borbonica, aveva deliberato «di chiamare un principe italiano sul trono, una volta promulgata la Costituzione», confidando nelle assicurazioni del plenipotenziario inglese Henry Gilbert Elliot Murray Kynynmound Minto, il ministro degli Esteri britannico Henry John Temple, visconte di Palmerston, si impegnò a garantire l’indipendenza del nuovo regno se la scelta del popolo siciliano avesse favorito la candidatura di un membro di Casa Savoia in alternativa a quella del secondogenito di Ferdinando II o del giovanissimo figlio del Granduca di Toscana, avanzata dalla Francia.
Fu Carlo Alberto che, dopo la sconfitta di Custoza (27 luglio), decise di risparmiarsi il conflitto con il Regno di Napoli, ciò che consentì a Ferdinando II di rompere gli indugi e ordinare alla sua armata guidata dal principe di Satriano, Carlo Filangieri, di varcare lo stretto, bombardare Messina e marciare trionfalmente alla riconquista di Palermo. All’epoca l’Inghilterra era ormai in una posizione di ostilità dichiarata e il 15 settembre 1849 inviò al nuovo capo del governo napoletano, Giustino Fortunato, una nota nella quale si sosteneva che «la rivoluzione siciliana era stata provocata dal malcontento generale, antico, radicato, causato dagli abusi del governo borbonico e dalla violazione dell’antica Costituzione siciliana, ripristinata e aggiornata dal patto politico del 1812, promulgato sotto gli auspici della Gran Bretagna, che, anche se provvisoriamente sospeso, non era stato mai considerato abolito dal consorzio europeo». La nota aggiungeva, minacciosamente, che «qualora Ferdinando II avesse violato i termini della capitolazione e perseverato nella sua politica di oppressione, il Regno Unito non avrebbe assistito passivamente a una nuova crisi tra il governo di Napoli e il popolo siciliano».
In Inghilterra divenne un caso molto dibattuto quello di Carlo Poerio, ministro dell’Istruzione nel governo costituzionale napoletano del 1848, che nel ’49 fu arrestato, processato e condannato a 24 anni di carcere duro (ne avrebbe scontati 10, per poi riparare in Piemonte dove gli sarebbe stato riconosciuto un rango politico di primo piano). Fu in questo clima che nel Regno Unito furono rese pubbliche le due lettere di William Ewart Gladstone a lord Aberdeen, che volevano essere un rapporto sulle carceri borboniche e sul trattamento dei prigionieri nel quale il regime di Ferdinando II veniva definito alla stregua di una «negazione di Dio». Un testo caratterizzato da una certa enfasi e non poche esagerazioni.
È in questo momento storico che Ferdinando II decise di dare una seconda prova di carattere – la prima era stata quella di cui all’inizio della «guerra carlista» – che gli sarebbe costata cara. Nel gennaio del 1855 si chiamò fuori dalla guerra di Crimea, nella quale, invece, Cavour si era schierato, a fianco di Francia e Inghilterra, contro la Russia. Nell’estate di quell’anno, scrive Di Rienzo, «convinto che l’offensiva dei coalizzati si sarebbe infranta sulle fortezze di Sebastopoli, il governo borbonico promulgava il divieto di concedere il passaporto ai sudditi siciliani per evitare che questi si potessero arruolare nella Legione anglo-italiana, composta da fuoriusciti politici della Penisola, ed emanava nuove disposizioni sanitarie, giustificate dall’epidemia di colera sviluppatasi in Crimea, che imponevano una quarantena di quindici giorni a tutto il naviglio proveniente dall’Impero ottomano».
Palmerston, divenuto primo ministro, nella seduta della Camera dei Comuni del 7 agosto accusava il regime borbonico di essersi schierato con la Russia, anzi di esserne diventato un vassallo. A suo avviso «nonostante la distanza geografica che separava i due Stati, l’influenza russa su Napoli era progressivamente cresciuta fino a divenire predominante». Secondo Palmerston, «il regno borbonico aveva dimostrato sfrontatamente la sua ostilità alla Francia e all’Inghilterra vietando l’esportazione di merci che il suo stato di neutrale gli avrebbe consentito tranquillamente di continuare a trafficare». Questa «palese violazione del diritto internazionale» appariva tanto più grave in quanto «perpetrata da un governo che si era macchiato di atti di crudeltà e di oppressione verso il suo popolo, assolutamente incompatibili con i progressi della civiltà europea». E qui il riferimento alle già citate lettere di Gladstone era quasi esplicito.
Palmerston fece di più: utilizzò fondi riservati del Tesoro britannico per finanziare una spedizione per liberare Luigi Settembrini, autore nel 1847 della Protesta del popolo delle Due Sicilie, Silvio Spaventa e Filippo Agresti, condannati a morte nel 1849, la cui pena era stata commutata nel carcere a vita da scontare nell’ergastolo dell’isolotto di Santo Stefano. L’operazione, progettata per la tarda estate del 1855, non arrivò a compimento, «ma», scrive Di Rienzo, «anche quel tentativo dimostrò, comunque, quale fosse il rispetto di Londra per la sovranità dello Stato borbonico e come la ferma volontà dimostrata da Ferdinando II di rivendicare l’autonomia del suo regno nelle grandi scelte di politica estera fosse prossima a ricevere un’esemplare punizione». Punizione «che i governi alleati avrebbero giustificato, servendosi di motivazioni completamente strumentali, tutte concentrate sulla critica della politica interna delle Due Sicilie, nell’impossibilità di usarne altre motivate da reali giustificazioni giuridiche attinenti la violazione del diritto internazionale».
Di qui un crescendo di manifestazioni di ostilità da parte dell’Inghilterra (ma anche, sia pure in minor misura, della Francia) nei confronti del Regno di Napoli. Palmerston pretende dalla corte di Caserta il licenziamento del direttore di polizia Orazio Mazza, accusato di aver offeso durante una rappresentazione teatrale («un episodio trascurabile», lo definisce Di Rienzo), il segretario della legazione inglese George Fagan. Il Times suggerisce addirittura di inviare a Napoli, a mo’ di «spedizione punitiva», navi britanniche che avrebbero dovuto ottenere «gli stessi risultati delle missioni intimidatorie guidate dal commodoro Matthew Calbraith Perry, nella baia di Edo, tra il 1853 e il 1854, per ridurre a ragione la resistenza dello shogun Ieyoshi Tokugawa». Così come gli Stati Uniti in Estremo Oriente, termina l’articolo del Times, anche la Gran Bretagna non poteva tollerare l’esistenza di «un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia». Immediatamente il ministero degli Esteri inglese fa eco a quell’editoriale, diramando una nota in cui si afferma che «il governo di sua maestà non poteva non tener conto dei sentimenti dell’opinione pubblica e dei circoli politici britannici perfettamente rispecchiati dalla stampa londinese». Solo la regina Vittoria riesce ad evitare che si passi dalle parole ai fatti. E risponde al governo con queste parole: «La regina, dopo aver esaminato la documentazione da voi allegata, ha espresso la più decisa contrarietà a una dimostrazione navale (che per essere efficace dovrebbe contemplare la possibilità di un’apertura delle ostilità) indirizzata ad ottenere dei cambiamenti nel regime politico delle Due Sicilie». In ogni caso prudentemente Ferdinando II decide di congedare Mazza.
Trascorre un po’ di tempo e si verifica un nuovo incidente. L’ambasciatore a Londra di Ferdinando II, Antonio La Grua, principe di Carini, informa «di aver rintuzzato con tagliente ironia le provocazioni di Palmerston il quale durante un ricevimento ufficiale gli aveva chiesto notizie di Carlo Poerio». Alle rimostranze del primo ministro britannico, il quale lo invitava a considerare che la detenzione di Poerio «non era materia di scherzo ma costituiva un affare serio e grave di cui il vostro governo conoscerà tra breve l’importanza», il diplomatico napoletano si vantava di aver ribattuto di non arrivare a capire «perché la sedicente magistratura d’Europa s’intestardisca a occuparsi delle nostre faccende e si dia pena di studiare una farmaceutica ricetta di cataplasmi senza avvertire il bisogno di tastare il polso, di guardare la lingua e ricercare i sintomi dell’ottima salute nostra».
Qualche anno dopo il ministro degli Esteri inglese, James Howard Harris (lord Malmesbury) si fermò a riflettere nelle sue memorie sul «caso Poerio» e sulle sue conseguenze. Palmerston e Gladstone, a suo avviso, avevano «commesso l’errore di mettere in discussione i diritti sovrani di uno Stato dispotico senza considerare che anche un regime assoluto possedeva le identiche prerogative di una repubblica o della stessa Inghilterra di difendersi contro gli avversari che lo volevano rovesciare con la violenza». Certo il regime borbonico era afflitto dalla «lentezza della giustizia». «Ma le torture alle quali Poerio si dice sia stato sottoposto», prosegue Malmesbury, «furono, a mio parere, inventate di sana pianta… Nessun individuo, trattato in maniera tanto disumana, avrebbe potuto ristabilirsi così rapidamente in soli tre mesi e apparirmi in così florida salute come Poerio che, quando mi fu presentato, nel 1859, alla Camera dei Lords dal conte di Shaftesbury, venne da me scambiato per un giovane pari reduce da una salubre villeggiatura». «Giusto o sbagliato che fosse», concludeva Malmesbury, «Ferdinando II, soprannominato “re bomba”, aveva una tale cattiva reputazione che tutto era lecito contro di lui, però, se si esclude questo sentimento largamente diffuso nell’opinione pubblica britannica, una spedizione armata diretta contro il suo regno costituiva una misura assolutamente illegittima».
È un fatto che in quegli anni il Regno di Napoli fu sottoposto ad una sorta di apartheid internazionale. Che parve attenuarsi solo verso la fine del 1856, quando esplosero moti a Palermo, a Cefalù, e, l’8 dicembre, si ebbe un tentativo (fallito) di regicidio contro Ferdinando II compiuto da Agesilao Milano. Il re cercò di approfittarne e di «risolvere» il problema dei detenuti politici avviando trattative per stipulare una convenzione con l’Argentina, al fine di stabilire sul Rio de la Plata «una colonia di sudditi napoletani, già condannati o in attesa di giudizio per delitti politici, che in quelle terre sarebbero stati confinati in commutazione della pena da espiare nella madrepatria». Ma Palmerston si affrettò a dichiarare ai Comuni che «l’invio dei detenuti in Argentina non poteva costituire un passo soddisfacente per riallacciare le normali relazioni diplomatiche con Napoli, perché le carceri napoletane, una volta svuotate, sarebbero state immediatamente riempite con nuove vittime della tirannia dei Borbone».
Quindi (28 giugno 1857) fu la volta della sfortunata spedizione a Sapri di Carlo Pisacane: un tentativo insurrezionale che – per l’ostilità dell’esercito ma anche del popolo – fallì e fu represso con durezza. Dell’equipaggio del piroscafo a vapore «Cagliari» di Pisacane facevano parte due macchinisti inglesi, tratti in arresto dalla gendarmeria napoletana. L’Inghilterra si mosse immediatamente per reclamare non solo la loro liberazione, ma addirittura un adeguato indennizzo economico che li risarcisse dell’«ingiusta detenzione».
Nel gennaio del 1859 Ferdinando II concede l’esilio perpetuo a circa novanta prigionieri (tra i quali Poerio). Inasprisce, però, le pene per i futuri arrestati. Così l’Inghilterra continua a tener viva la tensione con il regime borbonico e Londra sarà in prima fila a sostenere, nel 1860, l’impresa dei Mille. «Il Regno Unito», scrisse Malmesbury nelle sue memorie, «si sentiva autorizzato a servirsi della spada e dell’intuito del grande bucaniere Giuseppe Garibaldi contro i suoi nemici, come nel passato aveva utilizzato Drake e Raleigh, che gli spagnoli giustamente chiamarono pirati». Per di più nel mese di giugno tornarono al governo Palmerston e Gladstone, i più implacabili nemici della dinastia napoletana. Da quel momento l’aiuto inglese a Garibaldi fu decisivo.
Questa, del supporto britannico alla «liberazione del Mezzogiorno», è un’ipotesi che, scrive Di Rienzo, «la storiografia ufficiale ha sempre accantonato, spesso con immotivata sufficienza, e che ha trovato credito soltanto in una letteratura non accademica accusata ingiustamente, a volte, di dilettantismo e di preconcetta faziosità filo borbonica». Eppure c’è una gran mole di documenti che «mostrano almeno la plausibilità di questa interpretazione». E questo libro ce ne offre un’accurata disamina.
C’è la documentazione dell’aiuto inglese al viaggio e all’impresa di Garibaldi in Sicilia. Ma ci sono anche le prove della consapevolezza inglese dell’alleanza tra la malavita napoletana e gli insorti, evidenze che già si intravedevano nella Storia della camorra di Francesco Barbagallo edita da Laterza. Il 31 luglio 1860, il diplomatico inglese Henry George Elliot informa il Foreign Office «che numerose bande camorristiche erano pronte a scendere in campo per contrastare, armi alla mano, la mobilitazione dei popolani rimasti fedeli alla dinastia borbonica, per presidiare il porto in modo da facilitare uno sbarco delle truppe piemontesi e per controllare le vie di accesso a Napoli al fine di rendere possibile l’ingresso dei volontari di Garibaldi». Allo stesso modo Londra sapeva quasi tutto dell’attività di quel Liborio Romano che assoldò quei malavitosi «liberali» di cui ha recentemente scritto Nico Perrone in L’inventore del trasformismo. Liborio Romano, strumento di Cavour per la conquista di Napoli edito, anche questo, da Rubbettino.
In seguito alcuni uomini politici inglesi usarono parole di condanna per quel che era accaduto in quegli anni. Soprattutto dopo la «liberazione del Mezzogiorno». In Parlamento, il deputato conservatore Pope Hennessy aveva definito il tutto un «dirty affair» (sporco affare) e aveva denunciato «la furiosa repressione dell’armata sarda che si era macchiata di crimini contro l’umanità ben più efferati di quelli che l’opinione pubblica europea aveva imputato a Ferdinando II e al suo sventurato erede». Nella stessa sede George Cavendish-Bentinck aveva messo in evidenza quale errore fosse stato per il Regno Unito provocare quel grande incendio nell’Italia del Sud, in violazione di tutte le leggi internazionali. E uno dei più stretti collaboratori di Disraeli, Henry Lennox, aveva detto esplicitamente che sostituire il «dispotismo di un Borbone» con lo «pseudo liberalismo di un Vittorio Emanuele» era stato un grande sbaglio. Anche perché così «il Regno Unito aveva prostituito la sua politica estera appoggiando un’impresa illegittima e scellerata che aveva portato all’instaurazione di un vero e proprio regno del terrore».
Fu per queste vie, conclude Di Rienzo rievocando il successivo sprezzante diniego britannico alla richiesta italiana di istituire una colonia penale in un isolotto prospiciente la baia di Gaya, nel sultanato del Brunei, che l’Italia unita ereditò «quella stessa debolezza geopolitica che aveva accelerato, se non addirittura provocato, la fine del Regno delle Due Sicilie». Un destino che si sarebbe riflesso sul nostro Paese fino ai giorni nostri, «nel segno», è la conclusione di Eugenio Di Rienzo, «di un passato destinato a non passare».
Paolo Mieli