Lo scorso 1° maggio sono trascorsi 150 anni dalla morte di Niccolò Tommaseo (illustre fiorentino onorario) e opportunamente il Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux ( la mattina alle ore 9,30) e l’Accademia della Crusca ( il pomeriggio alle ore 15) hanno deciso di ricordarlo, nell’intera giornata del 22 ottobre, con un convegno che mi vede accanto a una folta schiera di studiosi, di differente provenienza e di differenti interessi disciplinari: storici della letteratura e critici letterari, storici della lingua, linguisti, archivisti, antropologi, cultori di tradizioni popolari. La pluralità delle competenze riflette la stupefacente varietà dei campi che Tommaseo ha coltivato.
Sul terreno della poesia, esordisce in gioventù con le Confessioni (1836), una coraggiosa e aspra investigazione autoanalitica che si nutre di antitesi non pacificate e di forti chiaroscuri, una inchiesta inquisitoria sulle proprie colpe che innesca un moto senza fine tra pentimento e gusto acre del peccato. In tarda età offre alle generazioni postunitarie la complessiva raccolta delle Poesie (1872), un libro memorabile che vale da prezioso giacimento di soluzioni espressive e di strutture metriche per Carducci, Pascoli, D’Annunzio e altri più giovani. Come narratore, si afferma con racconti storici (Il Duca d’Atene, 1837; Sacco di Lucca, 1838) che riescono a collaudare una personalissima e suggestiva sceneggiatura dei grandi eventi del passato senza ricorrere alla canonica saldatura di storia e invenzione brevettata da Manzoni nei Promessi sposi (1827).
Poi nel 1840, con il romanzo Fede e bellezza, segna una svolta decisiva: si lascia alle spalle la narrativa della storia e inaugura, anzitempo da noi, il moderno romanzo di analisi su materia di vita contemporanea, tanto che Luigi Capuana, nel giugno 1889, nella premessa alla terza edizione di Giacinta (1879), gli rilascia clamorosamente un esplicito elogio di precursore.
Sul versante linguistico, nessuno ignora il fondamentale rilievo storico del Tommaseo-Bellini, ma importa rammentare anche il magistrale Dizionario dei sinonimi (tante volte ristampato dalla princeps fiorentina del 1830 alla edizione definitiva del 1867). Esso non solo attesta una sensibilità linguistica acutissima, un talento supremo nel soppesare la parola in controluce, nelle sue minime increspature, ma anche dà testimonianza del nesso stretto tra parola e società, tra parola e morale, tra parola e civiltà. Nell’epoca attuale, di feroce manomissione delle parole, falsificate, deviate, distorte dal potere politico come dall’idolo della pubblicità, dobbiamo a Tommaseo profonda riconoscenza per il suo lavoro di tutta la vita dedicato al rispetto, alla responsabilità, all’etica della parola (ch’egli definisce, nel suo trattato Sul numero, un’«arma possente»). Un solo esempio: si veda l’articolo 1471 del Dizionario dei sinonimi (sono complessivamente 3564 articoli), dove si discorre di Istruzione e di Educazione: «L’istruzione riguarda la mente; l’educazione abbraccia tutta la persona. […] La prima ha per fine il vero; l’altra, e il vero e il buono, e l’utile e il conveniente. […] L’educazione data da una povera donna può essere più proficua dell’istruzione data da un gran letterato. Se gl’istruttori non hanno la virtù, l’autorità, la cura di farsi […] educatori, la società è depravata». La diagnosi riguarda anche i tempi nostri, perché la cultura oggi è in mano a istruttori che troppo spesso non sanno farsi educatori.
Ma c’è un altro aspetto che rende attuale la lezione di Tommaseo: le sue tormentate peregrinazioni di espatriato, dalla nativa Sebenìco in Dalmazia a Firenze, dal primo esilio in Francia e in Corsica al soggiorno veneziano, dal secondo esilio nell’isola di Corfù al rientro in Italia a Torino, quindi di nuovo (e definitivamente) a Firenze, la città che ha definito «patria del pensiero». L’esule Tommaseo, instancabile polemista, ha familiarizzato con genti e lingue diverse, con attenzione e rispetto per le diversità etniche e antropologiche. Il saggio Ai popoli slavi (1840), logorati dall’«antica piaga» della «divisione», è un accorato e dolente invito alla concordia, notevolissimo, perché dettato da una disperata lucidità, dalla consapevolezza che l’appello rimarrà inascoltato. Il saggio Italia, Grecia, Illirio, la Corsica, le Isole Ionie e la Dalmazia (1850) affonda nell’inestricabile matassa di intrecci commerciali, di lingue, di culture, di guerre spietate, un groviglio che dall’epoca preromana ha legato tutta la costa orientale adriatica, con Trieste e Venezia e i popoli slavi (sloveni, croati, bosniaci, serbi, macedoni, kosovari), al resto d’Italia e alla Grecia, alla Francia, alla Corsica. Da tale prospettiva mediterranea è nato un libro formidabile, Scintille, apparso a Venezia nel 1841. In apertura vi si leggono queste parole: «Meglio che trapiantare, giova […] innestare; che per tal modo s’ha il nuovo, e non si abbatte l’antico». Nella distinzione tra «innesto» e «trapianto» si vede bene come la perspicuità del sinonimista non sia mai mero fatto formale e non si dissoci mai dalla passione civile. La questione riguarda le migrazioni e i vincoli tra popoli diversi: ecco che «trapianto» rinvia a una coabitazione di identità incomunicanti, mentre «innesto» significa scambio e convergenza di identità attive che devono mantenere, ognuna, la propria specificità.
Gino Tellini Corriere Fiorentino 20 ottobre 2024
Lapide a Settignano in memoria di Niccolò Tommaseo. 1878