Perché Einaudi e Croce all’inizio difesero Mussolini. Articolo di Paolo Mieli uscito nelle pagine culturali del Corriere della Sera del 29 novembre.
A dispetto di ciò che può far immaginare il titolo, il libro di Massimo L. Salvadori Liberalismo italiano. I dilemmi della libertà, edito da Donzelli, non è una storia politica dei liberali nel nostro Paese. Attraverso una serie di saggi dedicati a sei personalità – Camillo Benso conte di Cavour, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Nicola Matteucci, Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio – compie invece una disamina delle peculiarità, delle anomalie, ma soprattutto dei problemi e dei difetti (vere e proprie zoppie) del liberalismo italiano. Il «limite strutturale» del nostro liberalismo tra il 1861 e il 1922 è quello di «essere stato l’espressione di pratiche di governo e di un movimento ideologico e culturale cresciuti ignorando il tratto e il compito essenziali dei sistemi liberali maturi: dare luogo a “normali alternative di governo” tra schieramenti politici in reciproca competizione ed egualmente legittimati a reggere le redini del potere». Il «liberalismo zoppo» dell’età prefascista «rimase zoppo anche nell’età postfascista, quando pure acquistò un carattere democratico: zoppo, perché ad esso mancava ancor sempre la gamba tanto essenziale per la vita piena di un sistema liberale: la possibilità non formale ma sostanziale per le principali forze di opposizione di accedere al governo, dando luogo a normali alternative, appunto, di governo». Salvo rare eccezioni, i nostri liberali «considerarono il monopolio di potere della classe dirigente come il positivo baluardo del sistema liberale quale si era venuto configurando in Italia».
Nei primi anni Venti Luigi Einaudi e Benedetto Croce si mostrarono benevoli verso Benito Mussolini e il suo governo
È in questo contesto che fu possibile l’abbaglio per il quale è accaduto che alcuni personaggi di questa vicenda, primi tra tutti Croce ed Einaudi, «di fronte alla crisi organica del sistema liberale negli anni del primo dopoguerra e sotto la spinta del timore di un collasso delle istituzioni che aprisse le porte all’eversione sociale rivoluzionaria, abbiano visto con favore l’emergere del fascismo, poi, in seguito, la sua ascesa al potere; e abbiano appoggiato con convinzione il governo Mussolini da essi considerato – si badi – non soltanto in grado di adempiere al compito della restaurazione dell’autorità dello Stato, ma anche di svolgere il ruolo di una forza autenticamente liberale che avrebbe riportato il Paese alla normalità costituzionale». Ed è questo il punto.
Niente nelle pagine di questo libro di Massimo L. Salvadori echeggia le antiche polemiche contro quegli intellettuali che per viltà non si opposero – quanto meno nei primi anni – al regime mussoliniano. Piuttosto, ci si domanda, come fu possibile il fraintendimento in base al quale considerarono liberale il regime fascista? Nell’ottobre del 1923, un anno dopo la marcia su Roma, «proprio quando», scrive lo storico, «lo Stato guidato da Mussolini e il partito fascista andavano seppellendo lo Stato liberale e schiacciando i partiti di opposizione con il concorso delle forze collaborazioniste di varia provenienza in una cornice di vasto e accelerato trasformismo», Benedetto Croce «diede dallo scranno del filosofo la più decisa legittimazione ideologica al fascismo, in pieno contrasto con la teoria liberale nata proprio per dar conto delle diversità organiche tra le diverse forme di Stato e di governo e sostenerne una contro le altre». Disse, Croce, che «per chi guarda con occhio di filosofo e di storico, tutti gli Stati sono sempre un unico Stato, tutti i governi un unico governo: quello di un gruppo che domina e perciò governa la maggioranza; e tutti, finché durano, adempiono a un’utilità, anzi alla maggiore utilità possibile nel momento dato». Utilità destinata a durare fino a quando non abbiano il sopravvento «altri gruppi che rappresentano o fanno sperare una maggiore e migliore utilità sociale». Il che, sottolinea Salvadori, equivaleva a dare il pieno avallo al governo di Benito Mussolini, una legittimazione espressa con decisione nel prosieguo del discorso: «Non esiste ora una questione di liberalismo e fascismo, ma solo una questione di forze politiche». Tutto è dettato, per espressa ammissione di Benedetto Croce, dalla «grande paura di un eventuale ritorno alla paralisi parlamentare del 1922», per cui «nessuno, che abbia senno, augura un cangiamento». Proprio queste furono le parole del filosofo: «Nessuno, che abbia senno, augura un cangiamento».
Gaetano Salvemini nel 1923 lo preferiva al ritorno di Giolitti. Nicola Abbagnano fu fascista fino agli anni ’40.
Del resto persino Gaetano Salvemini il 27 maggio del 1923 scriveva: «è preferibile Mussolini ad una nuova combinazione parlamentare a base di Giolitti, Bonomi, Orlando e governi simili; perché Mussolini si liquida da sé, perché è un clown, e perché è circondato da ragazzacci; ma gli aspiranti al soglio come successori di Mussolini sono sempre i vecchi intriganti parlamentari, che con la loro stupidità e viltà hanno reso possibile e necessario Mussolini». Nessuna contraddizione dunque, chiosa Salvadori, tra la fede liberale e l’accettazione nonché la giustificazione del fascismo: se ai liberali non si può chiedere di diventare fascisti, ad essi, dal momento che non hanno avuto «la forza e la virtù di salvare l’Italia dall’anarchia in cui si dibatteva», spetta «dolersi di sé medesimi, recitare il mea culpa, e intanto accettare e riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto, e prepararsi per l’avvenire».
Approvata la legge elettorale Acerbo, che avrebbe assicurato a Benito Mussolini la maggioranza in Parlamento, Croce, nel febbraio del 1924, giustificò il tutto con la considerazione che quella maggioranza a Mussolini «bisogna procurare di dargliela», esprimendo l’infondata convinzione secondo la quale, una volta che il «partito dominante» l’avesse ottenuta, si sarebbe presto rientrati «nella legalità e nel buon sistema costituzionale». Per di più, scriveva il filosofo, essendo «lo spirito umano creatore», non si poteva escludere che sarebbe sorto «un sistema politico affatto diverso dal liberale». Ma, di questo sistema «affatto liberale», Croce diceva di non riuscire ad individuare «neppure le prime linee», mentre vedeva bene «invece lo spontaneo avviamento, mercé le elezioni politiche, a un ritorno, come si dice, alla legalità, cioè alla pratica costituzionale».
Furono poi le elezioni e, nel giugno di quello stesso1924, l’uccisione di Giacomo Matteotti. In luglio Croce confermò il suo appoggio al fascismo e al Senato votò la fiducia. Ribadì che al fascismo si confaceva il ruolo di un «ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale, nel quadro di uno Stato più forte» e non già la volontà di instaurare «un nuovo tipo di Stato» inaugurando «una nuova epoca storica». La caduta del governo Mussolini, dunque, per Croce non era auspicabile e per questo il voto di fiducia era stato per lui «un voto di dovere», «prudente e patriottico», rispondente alle richieste di quanti non volevano che venisse vanificato il «molto di buono» che il fascismo aveva compiuto e si ritornasse «alla fiacchezza e all’inconcludenza che lo avevano preceduto». Bisognava «dare tempo allo svolgersi del processo di trasformazione».
Idee analoghe ebbe Luigi Einaudi che nel primo fascismo riconobbe una forza in grado di esercitare una funzione schiettamente liberale, dal momento che si dirigeva contro lo statalismo invasivo, contro le leghe rosse che violavano le regole della libertà del lavoro, contro l’anacronismo sociale dei popolari, contro i rivoluzionari che minacciavano la proprietà, contro la debolezza dei governi. Secondo Salvadori, Einaudi «fece allora un uso quanto mai spregiudicato del liberalismo». Nel settembre del 1922 scriveva che il pericolo di «una marcia fascista su Roma per dissolvere il Parlamento e mettere su una dittatura» non aveva fondamento; che «il programma del fascismo è nettamente quello liberale della tradizione classica»; che il fascismo si poneva il lodevole obbiettivo di sostituire la vecchia, «stracca» classe politica giolittiana con una nuova classe che però non aveva bisogno di nuove dottrine e non doveva mirare a costruire «nuovi regimi politici». «Desideriamo ardentemente», fu l’auspicio di Einaudi, «ci sia un partito, e sia quello fascista, se altri non sa far di meglio, il quale usi mezzi adatti per raggiungere lo scopo che è la grandezza materiale e spirituale della patria».
È più che evidente che Salvadori non intende «riscoprire» la circostanza dei numerosi intellettuali liberali i quali, in una fase iniziale, furono in qualche modo affascinati da Mussolini. Tra l’altro dedica molte pagine del suo libro a illustrare i meriti – precedenti e successivi – di questi pensatori nell’approfondimento e nella diffusione della dottrina della libertà. Quelle che vuole approfondire sono le motivazioni che alcuni di loro addussero per spiegare la simpatia per il fascismo in quell’inizio degli anni Venti. E talvolta anche negli anni successivi. È il caso di Nicola Abbagnano, il quale, scrive Salvadori, «fu ferventemente fascista», nel senso che durante tutti gli anni Trenta «a più riprese e in diverse sedi manifestò il proprio convinto consenso alla dittatura, con forme e toni che non possono in alcun modo configurare una sorta di pedaggio opportunistico pagato alle circostanze». E qui l’autore polemizza con tre libri – L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo (Laterza) di Luisa Mangoni, Il fascismo e il consenso degli intellettuali (il Mulino) di Gabriele Turi e La cultura a Torino tra le due guerre (Einaudi) di Angelo d’Orsi – che non hanno ritenuto di dover dedicare neppure un cenno al rapporto Abbagnano-fascismo. Mentre invece ce ne sarebbe stato di che.
Nel 1932, in occasione dell’apertura dell’anno scolastico del liceo in cui insegnava, Abbagnano «celebrò in maniera entusiastica il regime, i suoi successi in generale e in particolare le sue benemerenze sul fronte scolastico». In quel discorso, il filosofo plaudeva all’opera di Mussolini e del regime, grazie al quale «tutti i vecchi istituti dello Stato liberale, completamente incapaci a reagire contro quella disgregazione della coscienza politica italiana, che era l’ultimo e tristo retaggio delle secolari divisioni che avevano afflitto l’Italia, tutti i vecchi istituti, diciamo, sono stati rifatti e rinnovati secondo il nuovo spirito della Nazione». Alla «degenerazione parlamentaristica» si era opposto finalmente «saldo e granitico» un governo «vigile e duttile a tutte le esigenze e gli interessi nazionali, vero organo centrale propulsore di vita e di progresso». «Il Parlamento, sottratto alla sterile gara delle ambizioni, è stato ricondotto alla sua dignità e alla sua vera funzione di consigliere e collaboratore del potere esecutivo». Fino ai primi anni Quaranta Abbagnano aveva poi appoggiato ogni iniziativa di Mussolini, a partire dalla guerra d’Etiopia per continuare con le politiche che ne seguirono. «La Nazione italiana», scriveva nel 1939, «ha creato, con l’Impero, una forma di organizzazione politica che ha i tratti essenziali di un’esperienza politica ideale, di un’esperienza cioè nella quale la vita spirituale e la forza si conciliano nella più armonica unità». La guerra, proseguiva, pone ogni uomo di fronte «all’alternativa tra l’essere se stesso nella propria storia e il disperdersi in una vita senza storia». Al cospetto «di questa alternativa, i popoli stringono le fila, si purificano e si definiscono». E qui, secondo Salvadori, il riferimento alla purificazione, nient’affatto generico, «era una positiva adesione a quella politica razziale che, nei Ricordi, Abbagnano avrebbe detto di aver respinto con sdegno sofferente».
Ma torniamo all’abbaglio, nei primi anni Venti, dei liberali nei confronti di Mussolini. Esso fu dovuto al fatto che i liberali italiani ritennero che l’assetto politico del Paese fosse in pericolo, che non fosse più possibile trovare un equilibrio, che stessimo per precipitare in una guerra civile, e che ci fosse bisogno di una soluzione forte. Anche se in contrasto con i principi liberali stessi. Un po’ come – in un contesto, è bene sottolinearlo, tutto diverso – era capitato a Cavour dieci anni prima che fosse compiuto il disegno unitario. Impressionato dagli avvenimenti francesi tra il 1848 e il 1852, Cavour ritenne indispensabile il «connubio» tra la destra moderata e la sinistra di Urbano Rattazzi. Già Giuseppe Maranini, nella Storia del potere in Italia, 1848-1967 (Vallecchi), si era soffermato su questo particolare momento storico. A suo avviso il connubio tra Cavour e Rattazzi aveva costituito «un’operazione politica di vasto respiro», ma anche «un avvenimento che contribuì a modellare la fisionomia della Costituzione italiana», dal 1852 all’introduzione della rappresentanza proporzionale subito dopo la fine della Prima guerra mondiale, nel quadro di un sistema che vide i politici italiani perseguire «la creazione e la demolizione delle maggioranze attraverso manovre parlamentari ed extraparlamentari». E di un tipo di governo che, parlamentare nella forma, nella sostanza era «un governo pseudo parlamentare».
Ripetiamo: non è lecito stabilire paragoni tra il Regno sabaudo del 1852 e l’Italia del 1922, né tra le politiche di Cavour e quelle di Mussolini. Il punto di caduta di questa riflessione si ferma su quanto esponenti politici e pensatori della tradizione liberale italiana si siano sentiti in dovere, in momenti decisivi, di piegare il loro credo a quelle che ritenevano essere le priorità del momento. Questo perché il liberalismo, come avrebbe detto Abbagnano, era considerato inadatto a fronteggiare quella disgregazione della coscienza nazionale «che era l’ultimo e tristo retaggio delle secolari divisioni che avevano afflitto l’Italia». Salvadori riconosce che con il connubio Cavour inaugurò il regime parlamentare nel nostro Paese, ma aggiunge che «riformulando l’espressione, inaugurò uno specifico tipo di regime parlamentare, caratterizzato da una convergenza di forze al centro che – e qui si tocca il nocciolo della questione – non si limitavano a esercitare il governo e a orientare la maggioranza parlamentare, ma reputavano e presentavano se stesse come le uniche forze legittime di governo, tagliando le estreme di destra e di sinistra in quanto antisistema». E quando ci si presenta come unica forza legittima di governo, che non ha alternative d’opposizione ugualmente legittime, sempre ci si accinge – più o meno consapevoli – a fondare un regime.
Qui Salvadori si ferma a riflettere sulla delegittimazione in quegli anni del partito repubblicano e sui percorsi di legittimazione di un eventuale partito cattolico costituzionale. Nei confronti di Mazzini, Cavour fu oltremodo aspro. Nel 1850, pur riconoscendogli le buone intenzioni soggettive («la sincerità del suo amore per la causa della libertà e dell’indipendenza»), il conte disse di non voler sentire «mai più delle sue virtù quale capo di parte, dei suoi titoli ad esser tenuto quale iniziatore del Risorgimento italiano». Accusò poi, nel 1858, la Giovane Italia di aver dato «mala prova» già prima del 1848 e in seguito d’essersi votata, quanto meno quel che rimaneva della setta, alle «più sinistre imprese», dandosi al mutare «le spade in pugnali, le imprese in attentati, le battaglie in assassinii», professando anzi «la dottrina dell’assassinio politico»; al punto che Mazzini venne abbandonato da «quasi tutte le persone di onesti intendimenti, di animo generoso». Mazzini, agli occhi di Cavour, era divenuto il capo di una «minoranza esaltata»; lo definì «nemico come l’Austria e da questa favorito», insinuò il sospetto che potesse allearsi con i clericali, disse di lui che era un uomo il quale «agitava i bassifondi e pescava i suoi seguaci tra i folli e gli imbecilli, un demonio capace di sfuggire alle polizie di tutta Europa e da arrestare e appendere in quanto capo di una banda di assassini, un essere che suscitava ripugnanza nelle masse, nelle classi medie e in tutti i moderati di buoni sentimenti e con cui si doveva condurre una guerra a morte, peggiore degli stessi austriaci, inteso con la sua insensata fazione a cospirare contro la società, forse utilizzato persino a un certo punto dall’Inghilterra contro il Piemonte».
Tra il 1858 e il 1860, scrive Salvadori, la polemica antimazziniana di Cavour «fu dominata dal problema, divenuto quanto mai concreto, di impedire che l’alternativa repubblicana si opponesse con successo a quella monarchica piemontese». Nel marzo del 1859, Cavour scrisse a Costantino Nigra che era necessario unire intorno al programma del governo «tutti coloro che vi aderiscono in maniera assoluta e senza restrizioni, senza darsi pensiero delle opinioni manifestate nei tempi dei disordini e delle rivoluzioni», ma senza fare da parte del governo «la minima concessione ai repubblicani», così da impedire a Mazzini e ai suoi, quando avesse a scoppiare la guerra, di «levar altro stendardo che non sia lo stendardo che la Sardegna tiene alto e fermo», e di distruggerlo se necessario «in quanto più funesto alla causa italiana di quello stesso dell’Austria». Il punto culminante della linea cavouriana contro Mazzini, osserva Salvadori, fu raggiunto a impresa dei Mille conclusa, nell’ottobre-novembre 1860, «i mesi in cui si compì la stretta finale dell’unificazione nazionale». Queste le direttive del conte: fare ogni cosa per impedire a Mazzini di esercitare la sua «nefasta» influenza su Garibaldi; «nissuna transazione coi mazziniani, non debolezza coi garibaldini»; «bisogna spazzare i Crispi, i Mordini e tutti i loro adepti senza eccezione di sorta». Certo, sono parole di uno statista impegnato, come si è detto, nelle ore conclusive di una lunga battaglia. Ma c’è qualcosa di più, in materia di delegittimazione dell’avversario politico e di violazione dei precetti del liberalismo puro, su cui non è superfluo fermarci a riflettere.
Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) artefice dell’Unità d’Italia. Con la politica detta del «connubio» fu il primo a creare una coalizione centrale senza alternative
Diverso fu l’atteggiamento che Cavour tenne nei confronti della destra cattolica, segno questo che il capo del governo ben comprendeva l’importanza di avere all’interno del Parlamento un’opposizione legittimata a contendere alla maggioranza la guida del governo. «Dirò che se la corte di Roma accetta le nostre proposte, se si riconcilia con l’Italia, se accoglie il sistema di libertà, fra pochi anni, nel Paese legale, i fautori della Chiesa, o meglio, quelli che chiamerò il partito cattolico, avranno il sopravvento e io mi rassegno fin d’ora a finire la mia carriera nei banchi dell’opposizione», disse con parole non insincere allorché gli sembrava che l’accordo con Pio IX fosse possibile. Quando nel febbraio del 1848 gli era parso che Pio IX si schierasse definitivamente dalla parte del Risorgimento, aveva scritto che in Italia «non sono, non possono esistere, nonché guerra, contrasti reali tra la religione, chi l’amministra e lo spirito di libertà». Talché gli appariva che «la gran riconciliazione del clero con la causa del progresso, coi principi che lo informano e dominano la società moderna, mirabilmente preparata da Vincenzo Gioberti è stata compiuta e benedetta dal sommo Pio». Poi però i rapporti con il «sommo Pio» erano andati degenerando e nel giro di pochi mesi si erano trasformati in aperta, reciproca ostilità. Ma Cavour inseguiva il sogno di una riconciliazione nel segno del progetto di cui si è detto.
In due particolari occasioni, osserva Salvadori, nel dicembre del 1857 e nell’aprile del 1861 (poche settimane prima di morire) «Cavour espresse con chiarezza e fermezza il suo auspicio che avesse a sorgere prima nel Regno sardo e poi nel Regno d’Italia un partito cattolico conciliato con i principi liberali». I motivi che addusse «furono sia l’esigenza di rafforzare il fronte della conservazione, sia di rendere più vigorosa la dialettica politica fino al punto di dare vita ad un’alternativa di governo al partito liberale». In questo contesto, osserva l’autore del libro, fece un’affermazione molto significativa – di cui pare sorprendente non abbiano tenuto conto gli studiosi celebratori del connubio – nella quale diede prova evidente di avere egli stesso consapevolezza dei limiti organici posti dal connubio e dai suoi sviluppi alle istituzioni liberali, ovvero del costo di un esercizio monopolistico del potere. «Se in questo sistema», disse Cavour, «non vi fosse che un partito progressista, io penso che le cose dopo qualche tempo, potrebbero volgere al peggio e presentare pericoli». Affermazione che con tranquillità può essere modificata così: se si è in presenza di un solo partito (o di una sola coalizione) legittimato a governare le cose possono volgere al peggio e presentare pericoli. Cavour aveva visto giusto. Tant’è che nella successiva storia d’Italia «pericoli» e «peggio» non ci sono stati risparmiati.
Paolo Mieli