LE LETTERE DI CORRADO AUGIAS. La Repubblica 17 luglio 2020
Gentile dottor Augias, ho 58 anni. Finora avevo sempre ascoltato l’Inno di Mameli con un allegro senso di appartenenza alla mia nazione, mi piace il motivo, mi rendo conto che non è grande musica come quella scritta da Haydn per l’inno tedesco; però l’Inno di Mameli ci assomiglia: è allegro, battagliero, ha parole che ricordano il melodramma, compreso il richiamo alla morte. Costituisce il tassello di una condivisione con l’umanità. Da quando però è stata pronunciata la frase “Prima gli italiani” da Matteo Salvini ogni qualvolta mi capita di sentirlo provo imbarazzo come se l’inno e la bandiera rappresentassero i baluardi di un triste bullismo. L’Italia, la famiglia dovrebbero essere dei trampolini di lancio verso il mondo invece che ancoraggi di chiusura. Anna Saya
Gentile signora Saya che cosa vuole che contino le appropriazioni indebite di qualche leader politico di fronte ad una storia così densa di significati storici e simbolici. La breve vita di Goffredo Mameli sembra tratta da un romanzo di romanticismo corrente, un racconto mensile di De Amicis, un capitolo di Silvio Pellico, il film di de Sica Un garibaldino al convento . Quei versetti non insigni sono nobilitati dal fine che intendevano servire, non lontani in questo da quelli di tutti gli altri inni nazionali in Europa e negli Stati Uniti. La gentile signora Saya sbaglia; con saggezza, con un eccesso d’immedesimazione nei suoi nobili sentimenti, ma sbaglia. Nessun Salvini si approprierà dell’Inno nazionale né lo farà il movimento di Giorgia Meloni che s’è accaparrata in proprio l’incipit “Fratelli d’Italia” come se quei fratelli fossero solo suoi; né a suo tempo riuscì a farlo Silvio Berlusconi che strappò dalla bocca di milioni di tifosi il grido “Forza Italia”, trasformando nel nome di un partito di sua proprietà un gioioso incitamento sportivo. Sono tutte espressioni che dovrebbero essere protette dalla registrazione di un marchio, andrebbero usate solo quando coinvolgono l’intera comunità nazionale, gli interessi, le memorie, le speranze di tutti, non solo quelle dei seguaci di un leader o di un movimento di parte. Così non è, non c’è molto da fare, possiamo solo affidarci al buongusto (alla buona educazione) che come vediamo ogni giorno è una difesa troppo debole di fronte all’arroganza. Comunque un rimedio c’è, vale per tutti. Sapere come andarono le cose, ricordare per esempio che quei versetti sui quali qualche sciagurato sorride per la loro evidente ingenuità vennero composti da un ventenne genovese che voleva essere poeta ma era anche un fervido patriota. Quando a Roma nel 1849 venne proclamata la Repubblica, accorse a difenderla, prese posto sulle mura gianicolensi contro le truppe francesi mandate da Luigi Napoleone (di lì a poco Napoleone III), venne ferito a una gamba. Oggi sarebbe stata una ferita da niente, estrazione della palla, una buona medicazione, qualche antibiotico. Invece subentrò la cancrena, l’amputazione dell’arto non bastò, a nemmeno 22 anni Mameli morì.
Mameli voleva essere poeta, se fosse sopravvissuto forse lo sarebbe diventato. Però, morendo, ci ha lasciato il suo dono di ventenne. Corrado Augias