Non bisogna credere che il radicalismo musulmano sia mosso da ragioni religiose. Qual era per esempio la terribile blasfemia commessa dalla poliziotta uccisa a Montrouge?
Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 28 gennaio
Le parole ormai famose di papa Bergoglio a commento della strage di Parigi («se tu offendi la mia mamma, un pugno te lo devi aspettare») hanno segnato l’inizio di una significativa inversione di tendenza — o almeno di un dubbio — nel giudizio su quei fatti da parte dell’opinione pubblica occidentale. Che si può esprimere con queste parole: «La libertà va difesa, naturalmente, ma offendere le religioni, e poi con quella volgare crudezza propria di Charlie Hebdo, è sbagliato. È sbagliato non tener conto della particolare sensibilità che hanno in proposito i fedeli musulmani». Sono parole ispirate a una saggia prudenza in teoria condivisibile, che possono però avvalorare due gravi errori di giudizio.
Il primo è quello di far credere che il radicalismo islamico abbia nella sostanza un carattere di reazione, di risposta a presunte azioni dell’Occidente. Che è precisamente ciò che esso vuol far credere per ovvi motivi di popolarità, ma che è falso. E che sia falso lo dimostrano proprio i recenti sanguinosi fatti di Parigi: di quali offese religiose si era mai macchiata, infatti, la poliziotta spietatamente freddata a Montrouge poche ore dopo la mattanza nella redazione di Charlie Hebdo? E qual era la terribile blasfemia commessa dai 4 clienti del supermercato kosher altrettanto spietatamente fatti fuori? Forse quella davvero imperdonabile di essere ebrei, come tante altre vittime uccise di recente in Francia e in Belgio? Ancora: quali insulti a quale mamma avevano lanciato i tremila morti degli attentati dell’11 settembre alle Torri Gemelle? Riesce difficile rispondere. Così come riesce alquanto difficile indicare le ipotetiche colpe commesse dalle centinaia e centinaia di cristiani massacrati da anni, dal Pakistan alla Nigeria, per mano del fanatismo islamico. Se non una sola colpa, certo gravissima: essere cristiani, per l’appunto.
Il secondo errore che l’improvvisata affermazione papale può ingenerare è questo: che se pure viene accettato il principio della difesa della sensibilità religiosa, tracciare in materia un confine giuridico oggettivo resta quanto mai difficile, anzi impossibile. Non è male ricordare a questo proposito che la vignetta che da anni costa al suo autore danese una vita infernale, rinchiuso in una sorta di casa-bunker, protetto da decine di gendarmi contro la furia omicida del fanatismo islamico, non aveva nessuno dei caratteri volgari e sessualmente spinti di Charlie Hebdo. Ritraeva Maometto con un turbante che avvolgeva una bomba. Ma tanto è bastato. Il romanzo di Salman Rushdie Versetti satanici contiene una rivisitazione in chiave onirica di una presunta ispirazione diabolica di Maometto. Di nuovo: tanto è bastato per far guadagnare al suo autore una condanna a morte dall’imam Khomeini, al traduttore giapponese del libro la morte effettiva, e infine il ferimento a quello italiano e all’editore norvegese dell’opera. Un altro esempio: il regista olandese Theo van Gogh è stato ucciso solo per aver girato un documentario sull’oppressione delle donne nel mondo islamico, mentre la deputata olandese musulmana, collaboratrice del regista, ha dovuto rifugiarsi negli Usa e da allora vive sotto protezione.
La domanda allora è: visto che da quanto appena detto sembra proprio che la soglia di sensibilità religiosa diffusa nell’Islam sia estremamente bassa, davvero dovremmo farla nostra, adottandola nella nostra legislazione? Va da sé però che in questo caso dovremmo adottarla come norma generale applicabile a tutte le fedi religiose. Ma allora, di conseguenza, domani per esempio dovrebbe essere vietato disegnare il Papa nelle vesti di un crociato, oppure criticare i risultati del Sinodo sulla famiglia per non offendere la sensibilità dei cattolici, così come bisognerebbe vietare il commercio delle opere di Nietzsche in cui si attacca ferocemente il Cristianesimo, e così via immaginando. Che facciamo se no? Decidiamo noi quale sia la soglia politicamente corretta della sensibilità religiosa, solo oltre la quale scatta la sanzione penale? E in base a quale criterio? E con quale certezza di risultati?
In realtà l’intolleranza fanatica così diffusa nell’universo islamico — madre diretta della sua vasta propensione alla violenza — rimanda direttamente a un fattore che tuttora ci ostiniamo a non considerare: e cioè la scarsa conoscenza che in esso si ha del mondo moderno, causata a sua volta da una scarsa diffusione dell’istruzione. Per cui in pratica l’unico strumento di acculturazione per masse larghissime della popolazione finisce per essere l’insegnamento religioso.
Secondo l’Unesco, infatti, nel 2009 circa il 40 per cento degli arabi sopra in 15 anni, specie le donne, era analfabeta (il 50 per cento addirittura, secondo le stime di un docente dell’Università di Rabat su Le Monde nel luglio 2012). E da allora la situazione non sembra essere molto migliorata. Non solo, ma come ha dichiarato il direttore delle Iniziative culturali dell’Istituto del Mondo arabo con sede a Parigi, Mohamed Métalsi, «per i più piccoli l’educazione è fortemente impregnata di religione, mentre per i più grandi l’insegnamento della filosofia si attiene solo ai testi musulmani. Della filosofia greca o dei Lumi neppure a parlarne». Con tali premesse non stupisce il risultato di un rapporto redatto nel 2002 sotto l’egida della Nazioni Unite: e cioè che nell’insieme dei Paesi arabi (circa 400 milioni di abitanti) si pubblicavano meno libri che nella sola Spagna; mentre secondo un rapporto analogo del 2003, in mille anni (mille anni!) il mondo arabo nel suo complesso avrebbe tradotto all’incirca 10 mila titoli: ancora una volta l’equivalente di quelli che sempre la sola Spagna traduce in solo anno. Per giunta «le grandi opere della cultura occidentale — è sempre Métalsi a parlare — sono tradotte in un numero limitatissimo, e le traduzioni sono spesso mediocri».
Forse da qui, da questi dati dovremmo cominciare a ragionare quando parliamo — così spesso a vanvera — di terrorismo, multiculturalismo e integrazione. Forse a partire da questi dati dovremmo impegnare un confronto serrato, amichevole ma fuori dai denti, con i Paesi arabi.