Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 18 agosto
Il Mezzogiorno appare sempre di più un mondo a parte. È questa la realtà vera che ci rivelano i voti degli esami di maturità delle sue scuole, così inesplicabilmente superiori a quelli delle scuole delle regioni del resto d’Italia. Un mondo dove vigono altri criteri di valutazione, un’altra idea di che cosa siano la scuola e lo studio e il loro rapporto con la società, di che cosa debba essere la preparazione dei giovani alla vita, un’altra idea — si deve supporre — di che cosa sia la vita stessa.
Il Mezzogiorno appare oggi un mondo a parte come in questi ultimi decenni non lo era mai stato: per l’assenza consolidata di ogni prospettiva di sviluppo, per gli elevatissimi tassi di disoccupazione, per il crollo demografico. Ma insieme per l’insediamento ormai egemone in molti ambiti delle organizzazioni malavitose (il solo suo aspetto che sembra capace di mettere radici altrove), per l’indice carente di tutti i servizi (dalla sanità alle comunicazioni), per le dimensioni e l’inefficienza e delle sue burocrazie, per la qualità disastrosa di quasi tutte le sue classi politiche (ormai giunte con il consigliere regionale siciliano Barbagallo al limite dell’avanspettacolo), e infine per un’atmosfera sociale ancora dominata in pieno dal familismo, dai rapporti clientelari, dalla raccomandazione. Tutto ciò, sia chiaro, non già a causa di qualche malformazione genetica dei nostri concittadini di quelle regioni, ma a causa di una storia infelice caratterizzata da un’antica indigenza e da secoli delle più varie forme di malgoverno.
Una storia che qualche decennio fa molti segni indicavano essersi finalmente interrotta ma che ora, invece, sembra riaffermare tutto il suo peso. Il Sud è sempre più lontano dall’Italia, sempre più un mondo a parte. Perché? Tra le molte risposte che vengono date non trovo mai quella che a me sembra la principale. Il fatto che in questo tempo è andato progressivamente scomparendo lo Stato nazionale.
Non è solo o tanto questione di investimenti, di infrastrutture, di Cassa per il Mezzogiorno, io credo. Non è solo questione di risorse insomma. Molto di più è questione dell’opera di omogeneizzazione culturale e dunque sociale che per un secolo l’esistenza dello Stato italiano ha significato. Un’opera realizzata grazie soprattutto alla sua struttura giuridica e amministrativa la quale è valsa a stabilire da un capo all’altro della Penisola la medesima scuola, la medesima lingua, il senso di una vicenda storica comune, i medesimi istituti di autogoverno delle comunità, i medesimi uffici pubblici, le medesime regole; e grazie a un medesimo, multiforme, corpo di addetti. In tal modo si è compiuto tra tutte le parti del Paese un travaso fecondo di persone, di legami familiari, di idee, di sensibilità, che ha favorito dappertutto la circolazione delle conoscenze, una visione più aperta del mondo nonché, a partire dalle aree e dagli ambiti più avanzati, la diffusione di consuetudini di vita e di abiti intellettuali più liberi e adeguati ai tempi. È così venuto crescendo anche un pensare tendenzialmente comune, frutto di un reciproco arricchimento e premessa di un avanzamento dell’Italia nel suo complesso.
A partire dagli anni Settanta questo processo, però, è cominciato a entrare in stallo. Siamo stati presi da un vortice di localismo–stanzialismo, favorito per un verso dalla ricerca demagogica del consenso da parte della politica e per l’altro da un incontrollato potere sindacale. Per cominciare, in quasi tutte le amministrazioni statali si è affermato il diritto di avere il posto di lavoro nel proprio luogo d’origine o comunque di propria scelta; per chi aveva una famiglia invece della precedente ovvia prassi del trasferimento di questa è subentrato il diritto al «ricongiungimento». In settori come la scuola e l’università ha cominciato ad affermarsi un crescente decentramento funzionale che oggi tocca l’apice. Gli istituti e gli atenei sono divenuti sempre più autonomi riguardo la scelta del personale: c’è da stupirsi se negli uni e negli altri insegnino ormai da tempo (vedremo cosa succederà dopo le sommosse in corso) quasi solo insegnanti locali o comunque radicati localmente? L’istituzione delle Regioni è stato l’ulteriore passo decisivo. In nessuno dei loro tanti uffici lavora qualcuno che non sia nato nella regione stessa o vi risieda da decenni. Le loro leggi hanno riguardo solo per quanto è nel e del territorio di loro competenza.
Nello stesso giro di anni in tutta la Penisola ha guadagnato sempre più terreno, specie ai livelli sociali medio-bassi, ma anche nell’ambito scolastico e dei media locali, una sorta di perverso decentramento culturale alimentato regolarmente dalle risorse degli assessorati regionali. Ha preso così a dominare dovunque l’enfasi su tutti gli aspetti dell’identità locale a scapito di quelle nazionali. La sagra della vongola o del liscio, il rudere di una pieve o un oscuro fattarello storico svoltosi dietro l’angolo, acquistano oggi più spazio ovvero hanno diritto a una maggiore memoria della Biennale di Venezia o del conte di Cavour.
Per il Mezzogiorno l’insieme di tutti questi fenomeni è stato funesto. Come mille altre cose anche la ritirata dello Stato nazionale, il suo frantumarsi nel localismo, colpisce negativamente il Sud, lo danneggia, mille volte più che le altre parti d’Italia. Il Nord, infatti, nonostante tutto continua ad essere culturalmente e civilmente vivificato dall’ininterrotta immigrazione interna dal Mezzogiorno nonché dai molteplici apporti dall’estero che gli procura la sua economia. Viceversa è sul presente e ancor più sul futuro dell’Italia meridionale che si va sempre più chiudendo la porta di una soffocante prigione ambientale. È l’Italia meridionale che la fine dei circuiti stabilitisi con l’unità del Paese condanna a una grigia autarchia antropologica, culturale e di modelli di vita. Una condanna che naturalmente, come sempre, colpisce i poveri ben più dei ricchi. I quali infatti mandano tutti i figli a studiare altrove e se si ammalano si precipitano a farsi ricoverare negli ospedali del Centro o del Nord.