di Gian Antonio Stella dal Corriere della sera del 14/07/11.
«Voi… piccoletti ladruncoli bastardi!» . Se vedesse crescere gli alberi sui tetti della Cittadella di Alessandria (sopra e a destra, in una foto aerea), sui quali sventolò nel 1821 il primo Tricolore del Risorgimento, che lui cantò in Piemonte, Giosuè Carducci scaglierebbe ancora, probabilmente, la sua celebre invettiva contro i politici incapaci. E avrebbe buone ragioni per farlo. Uno Stato serio non abbandona così un pezzo della sua storia.
Alberi sui tetti delle polveriere, alberi sui tetti delle torrette, alberi sui tetti delle casermette e poi sterpi e cespugli ed erbacce e alberi sui bastioni, sulle porte, sulle rampe e insomma ovunque l’assalto di una selva aggressiva che sta sbranando giorno dopo giorno la magnifica fortezza settecentesca abbandonata al degrado sotto gli occhi di tutti i «lisandren» , a poche centinaia di metri da piazza della Libertà, il cuore della città piemontese appena al di là del Tanaro. Avanti così e rischia di diventare come la bellissima Angkor ai tempi in cui il francese Henri Mou la scoprì, ingoiata dalla giungla cambogiana. C’è chi dirà che, come spiegava già Alberto Ronchey, forse il migliore dei ministri dei Beni culturali, questa è l’altra faccia della nostra fortuna, cioè l’abbondanza straordinaria di ricchezze artistiche, monumentali e paesaggistiche: non abbiamo soldi per stare dietro a tutto. Tanto più in anni di magra come questi. E può così capitare che, a poche decine di chilometri, lo Stato concentri tutti gli sforzi nel meraviglioso risanamento della reggia di Venaria Reale, appena a Nord di Torino, e lasci cadere in pezzi la «meno importante» Cittadella di Alessandria. Il fatto è che la Cittadella alessandrina non è una delle tante fortificazioni: è un capolavoro di arte militare che appare dal cielo circondata da mura e fossati a forma di una stella a sei punte che nella cerchia esterna diventano dodici, inserito dal 2006 nella lista dei luoghi candidati a entrare nell’elenco dei siti tutelati dall’Unesco come patrimonio mondiale dell’umanità. Costruita a partire dal 1728 per volontà di Vittorio Amedeo II di Savoia, la fortezza fu il punto di partenza, come si diceva, nella prima fase del Risorgimento. Siamo nel 1821, i patrioti sognano la concessione di una Costituzione sul modello di quella spagnola dopo i moti di Cadice e puntano tutto sul principe ereditario Carlo Alberto, visto come un simpatizzante delle idee liberali e patriottiche. Scrive nel libro La forza del destino Christopher Duggan: «Il 6 marzo i principali architetti della cospirazione fecero visita a Carlo Alberto e gli dissero che tutto era pronto, e che stava per cominciare “l’epoca più gloriosa di casa Savoia”. Gli chiesero il suo benestare, e a quanto pare il principe lo dette stringendo la mano al conte Santorre di Santarosa, il leader della cospirazione e un temperamento d’idealista. Tre giorni dopo un tricolore (probabilmente il vessillo verde, bianco e rosso del Regno d’Italia) venne issato sulla cittadella di Alessandria. L’insurrezione era cominciata» . Le cose, si sa, non finirono bene. Ma restano nella nostra storia quel tricolore (anche se c’è chi sostiene fosse blu-rosso nero, i colori della carboneria) e il proclama emesso quel 10 marzo 1821 dal colonnello Guglielmo Ansaldi, che aveva preso il comando della piazzaforte e assunto la presidenza della nuova Giunta: «Cittadini, lo stendardo del dispotismo è per sempre curvato a terra fra noi. La patria che ha gemuto finora sotto il peso di obbrobriose catene, respira finalmente l’aure soavi di fraternità e di pace. Cittadini! L’ora dell’italiana Indipendenza è suonata!» Tema: esiste un altro Paese al mondo che abbandonerebbe agli sterpi il primo luogo in cui fu affermata l’indipendenza? Al di là di quello storico, tuttavia, c’è un altro tema. Che riguarda il «modo» in cui vanno affrontati certi problemi. I militari che fino a pochi anni fa occupavano la Cittadella sapevano che i tetti degli edifici avevano, sotto i coppi, uno strato di terra messo lì per attutire i colpi di cannone. Un accorgimento accompagnato da un problema: in quel tappeto di terra spuntano continuamente alberelli. Per questo, la manutenzione era costante: appena spuntava una piantina, veniva strappata via prima che crescesse e devastasse il tetto. «Era la cosa più logica che si potesse fare e per due secoli è stata fatta» , spiega il maresciallo Maurizio Sciaudone, che fu l’ultimo militare a lasciare la fortezza nel 2007 e da anni, come consigliere comunale prima di An e ora del Pdl, si batte con Fai e Italia nostra e Legambiente e «La Cittadella 1728» e il Club Unesco e altri gruppi di volontariato contro il rapidissimo degrado della piazzaforte. È una questione di scelte: o la manutenzione quotidiana, che forse è noiosa e ripetitiva ma salva i monumenti, oppure l’abbandono in attesa, di anno in anno, di decennio in decennio, di un mega progetto sbandieratissimo e complicatissimo e costosissimo. Per rimuovere con tecniche specialistiche d’avanguardia alberi di quattro o cinque metri che potevano essere strappati a mano quand’erano esili piantine di dieci centimetri e risanare torri squarciate dalla penetrazione di enormi radici che avrebbero potuto essere tagliate quando erano filamenti e ricostruire mura divorate da una selva impenetrabile che avrebbe potuto essere falciata un tempo col decespugliatore. Scelte: solo una questione di scelte. Certo, in un Paese che vive di proclami roboanti e di promesse di ponti giganteschi e tunnel fantasmagorici ed Expo planetarie, la quotidiana manutenzione del buon padre di famiglia non porta voti, non porta gloria, non porta titoli sui giornali…