Gli italiani amano poco le funzioni di vigilanza dell’ordine e della legalità Ma un’autorità debole è poco compatibile con un’Italia moderna
Giovanni Belardelli Corriere della Sera 22 novembre
Nel corso del Seicento alcuni grandi teorici della politica cercarono di spiegare perché gli esseri umani avessero un giorno abbandonato lo «stato di natura» per far nascere lo Stato e il governo. Secondo John Locke, uno dei padri nobili del liberalismo, lo avevano fatto, anzi avevano dovuto farlo, per ottenere la garanzia che i diritti di ciascuno venissero fatti rispettare. A ben vedere, le occupazioni milanesi di case, la protesta romana di Tor Sapienza rappresentano, insieme a tanti altri episodi analoghi, una specie di grande lezione collettiva circa i fondamenti della politica, la dimostrazione pratica di quanto quell’assunto di Locke faccia ancora parte del bagaglio di una società democratica. Ci hanno mostrato infatti dove si va a finire quando l’azione dello Stato — e dei poteri pubblici in generale — è debole o assente e ciascuno pensa di poter provvedere a farsi giustizia da sé, dando vita a una guerra di tutti contro tutti (come definì la condizione prestatale Thomas Hobbes).
È dal 1861 che l’Italia soffre di una statualità debole, per molti motivi. Per il sentimento di estraneità, in quel momento, di gran parte della popolazione. Per il conflitto che oppose a lungo Stato e Chiesa. Non ultimo per il fatto che il protagonista dell’unificazione, il Piemonte, non aveva — in termini di territorio, popolazione, forza militare — un peso così superiore e prevalente rispetto al complesso degli altri Stati preunitari, come era invece il caso della Prussia che svettava nettamente rispetto agli staterelli tedeschi con i quali costituì nel 1871 la Germania.
Venendo ad anni più vicini, tutti ricordiamo come nella prima Repubblica i partiti — quanto meno i due maggiori — rappresentassero soggetti che limitavano il potere dello Stato in quanto erano essi stessi delle istituzioni protostatali, come qualcuno li ha definiti. La nascita delle Regioni e l’estensione dei poteri successivamente loro attribuiti con la riforma del titolo V della Costituzione hanno rappresentato un ulteriore fattore di debolezza dello Stato, come luogo di indirizzo e guida della vita del Paese. Si è trattato di una debolezza che, come avviene anche per gli individui quando sono deboli e insicuri, si è tramutata e si tramuta spesso in arroganza e prevaricazione. Lo testimoniano i rapporti del comune cittadino con la pubblica amministrazione o la giungla di adempimenti fiscali e amministrativi cui è costretta ogni piccola impresa.
Diciamo la verità. Con questa (relativa) debolezza dello Stato noi italiani ci siamo accomodati benissimo: sempre pronti a chiedere provvidenze e interventi a uno Stato sociale dalle finanze abbastanza dissestate, amiamo invece poco lo Stato cosiddetto guardiano notturno, quello che vigila sul rispetto dell’ordine pubblico e delle leggi. Quel che avviene riguardo alla tutela del territorio e alle catastrofi naturali evidenzia proprio questo. Una parte del Paese ha tenacemente avversato ogni norma che potesse limitare le costruzioni in zone a rischio: dalle aree golenali dei fiumi alla zona rossa del Vesuvio. Salvo poi chiedere allo Stato di intervenire per i soccorsi, i danni, la ricostruzione. Questo, come è ovvio, non vuol dire che i singoli cittadini danneggiati da una frana o da una alluvione siano esattamente gli stessi che avevano edificato incautamente o illegalmente. Nondimeno è questa domanda alternata di assenza e presenza dello Stato che si è verificata e — temo — continua a verificarsi. Come è noto, la frana di Sarno del 1998 fu causata anche dal fatto che fossero stati ostruiti dai rifiuti i canali per drenare le acque che scendevano dalla montagna. Dopo la tragedia (circa 160 morti) l’area venne messa in sicurezza; ma oggi, ha dichiarato il sindaco di Sarno ( Corriere , 13 novembre), le vasche per la raccolta delle acque «sono state trasformate in discariche di rifiuti». Non c’è che dire, una descrizione perfetta di quella specie di «stato di natura» in cui molti italiani si ostinano a voler vivere. Incuranti del fatto che questa è una condizione poco compatibile con l’esistenza di un Paese moderno