Giorgio Napolitano fa un bilancio positivo delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità
«L’orgoglio ritrovato di un grande Paese»
«Si avvertiva che l’Italia aveva perduto terreno.
La partecipazione è stata una lezione secca agli scettici»
di MARZIO BREDA, dal Corriere della Sera del 24 dicembre 2011
In una pagina de La provincia dell’uomo , Elias Canetti sosteneva che «quando tutto va in pezzi, il calendario con i suoi giorni particolari resta l’unica e l’ultima sicurezza». Vale a dire che cercar riparo nel calendario per rivivere certi anniversari (e ciò vale per le paranoie di un singolo individuo come di un intero popolo) serve ad «assorbire la paura». E oggi di paura e incertezza ce n’è molta, nell’Italia che ha appena festeggiato i suoi 150 anni di unità. Non a caso i sociologi la fotografano come depressa, esausta e, appunto, impaurita. Una descrizione che si fonda su buone ragioni. Basta pensare a quanto ci hanno messo sotto stress le esasperate prove di forza in Parlamento, i collassi dell’economia, le ferite all’immagine internazionale del Paese, la caduta di Berlusconi e la nascita del governo Monti come soluzione d’emergenza per una politica in affanno. E, infine, i duri sacrifici imposti dalla manovra per dissipare lo spettro del default.
È dunque un anno carico di inquietudini, quello che arriva. Ma, nonostante tutto, Giorgio Napolitano non si arrende alla sfiducia. Le sfide e i rischi che ci stanno davanti sono superabili, dice, «con l’arma vincente della coesione sociale e nazionale». Un’arma che, nei momenti difficili, gli italiani hanno sempre dimostrato di saper ritrovare. Quindi, «ce la faremo, usciremo dal tunnel». Ne è tanto più convinto, il capo dello Stato, dopo che nel suo viaggio dentro la memoria del Paese ha riconosciuto nella risposta della gente vaste e salde tracce di quel «cemento unitario» in grado di offrire speranza. A lui e a noi.
Ne parla mettendo tracciando un bilancio di questa esperienza (più culturale che politica) che un po’ lo ha stupito. Spiegando come – da Quarto a Marsala, da Reggio Emilia a Napoli, da Bergamo a Palermo, a molti altri luoghi – sia riuscito a costruire un «racconto nazionale» in grado di convincere gli italiani a essere fedeli a se stessi. Italiani che, a suo avviso, erano comunque «già pronti a reagire positivamente», unendo le forze e ripartendo dal passato per guardare a un nuovo orizzonte.
Eppure, gli chiediamo, alla vigilia delle celebrazioni qualche segnale fece temere che la guerriglia politica di cui siamo ostaggi contagiasse l’anniversario, facendo prevalere diserzioni e polemiche. Si recriminò perfino sulla proclamazione del 17 marzo «festa della Nazione». Insomma: c’era chi profetizzava il fallimento tout court di quanto era stato messo in cantiere. Ora, a un anno di distanza, le cose sono andate inaspettatamente bene anche grazie a una miriade di iniziative spontanee. E, come lei ha detto, ciò rappresenta «una lezione secca per gli scettici». Come è stato possibile, Presidente? Che cosa ha prodotto questo scatto di coesione, «dignità e orgoglio nazionale» in un popolo sempre in deficit di autostima e diviso? A quali riserve di sentimenti, cultura, capitoli storici e valori simbolici (evidentemente interiorizzati in profondità, nonostante tutto) abbiamo attinto a dispetto di tanta sfiducia?
«Il successo di partecipazione diffusa, la più variegata e popolare, in tutte le regioni, e fin nei più piccoli centri, delle celebrazioni del 150° è stato superiore a ogni previsione. Non direi che le cose sono andate “inaspettatamente bene”: per quel che mi riguarda, nutrivo aspettative consistenti, ero sicuro che l’impresa potesse riscuotere ampio consenso, ero fiducioso. Direi che le cose sono andate bene al di là delle più positive previsioni. Ma la domanda che lei pone è, allora: “Com’è stato possibile?”. Credo che lei colga un aspetto essenziale della spiegazione da dare: e cioè la riserva a cui si poteva attingere “di sentimenti, cultura, capitoli storici e valori simbolici” che evidentemente – lei dice bene – erano stati “interiorizzati in profondità, nonostante tutto”. Ebbene, li abbiamo, per così dire, fatti emergere, li abbiamo – con i nostri appelli, le nostre iniziative, le nostre sollecitazioni – portati in superficie. Ed è stato molto importante, è stato decisivo. Se fossero mancate quelle basi, ogni perorazione sarebbe risultata inefficace o assai limitatamente efficace».
Ma naturalmente non si riduce tutto a questo, per Napolitano. C’è un sottosuolo di sentimenti, e di mortificazioni, che ha sbloccato anche i cittadini più disincantati e prodotto uno scatto di «passione» per la Patria-Italia.
«Sì, c’è un altro aspetto, io ritengo, della spiegazione da dare del successo delle celebrazioni. E cioè che, in effetti, si era via via accresciuto tra gli italiani, tra larghe masse di italiani – uomini e donne di ogni generazione – un bisogno di riaffermazione di quel che siamo, come grande nazione e come moderno Stato europeo. Un bisogno di recupero dell’orgoglio nazionale, in reazione a stati d’animo di disagio, di incertezza e anche di frustrazione. Si avvertiva che in qualche modo, anche (ma non solo) nel confronto internazionale, l’Italia aveva perduto terreno, aveva visto offuscarsi la propria immagine, il proprio prestigio, la propria dignità. Ed ecco quindi che questi stati d’animo, questi sentimenti nuovi, recenti, si sono incanalati nel solco delle celebrazioni del 150°. Queste sono state viste come l’occasione per far nuovamente sentire più forte il patrimonio storico dell’Italia, il nostro ruolo in Europa e nel mondo. E questa occasione è stata colta da milioni di italiani, da quanti mettevano la bandiera al balcone o agitavano il tricolore nelle piazze, nelle strade, e partecipavano alle assemblee, a iniziative di ogni sorta e di ogni dimensione. Credo che questo secondo elemento di spiegazione sia essenziale almeno quanto il primo, che già nella sua domanda veniva chiaramente suggerito».
Durante questo percorso lei è andato oltre una certa ortodossia risorgimentale, senza disconoscere «zone d’ombra» e «vizi d’origine» dell’unità e senza negare alcune letture problematiche che revisionano una «versione di Stato» pietrificata per anni. Riflessioni che lei ha spesso comparato con la ricostruzione di quanto avveniva nel contempo in Europa e corredate con una rivisitazione del ruolo giocato dai diversi protagonisti: Cavour, Mazzini, Garibaldi, Cattaneo.
«È vero che ho ben presto compreso come nel modo di concepire e promuovere le celebrazioni del 150° dovessi, più che “andare oltre una certa ortodossia risorgimentale”, evitare quel che poteva apparire rappresentazione convenzionale e acritica del processo unitario e ancor più dello sviluppo successivo della nostra storia nazionale. Mi sono ben presto reso conto che non bastava nemmeno la valorizzazione appassionata dei simboli della nostra unità nazionale, ma era indispensabile nutrire quella valorizzazione e sollecitazione con risposte a interrogativi non semplici, abbastanza largamente percepiti, che riguardavano criticità indubbiamente rilevabili nel lungo e complesso percorso del Risorgimento e anche della costruzione dello Stato unitario. Mi sono perciò anche personalmente impegnato – ma insieme con molti altri, a cominciare dalle personalità del Comitato dei Garanti, e in primo luogo del suo presidente, Giuliano Amato – in una rivisitazione il più possibile attenta, non elusiva e perciò convincente».
Su quali studi ha formato le proprie idee? Quali saggi e ricerche consiglierebbe alle generazioni di oggi? «Personalmente sono ripartito da libri che avevo letto e da molti anni – in qualche caso davvero molti – conservato negli scaffali della mia biblioteca. I libri di Giustino Fortunato e i testi del meridionalismo; le diverse Storie di Benedetto Croce, compreso quell’autentico gioiello costituito da Una famiglia di patrioti ; lettere e scritti di Silvio Spaventa; una voluminosa, poco ricordata, ricerca di Giuseppe Berti su I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento ; La storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia del Candeloro; la Vita di Cavour di Rosario Romeo… E mi fermo qui. Ma su Cavour, in anni più recenti, un contributo stimolante e vivo avevo colto nell’agile libro di Luciano Cafagna. E utilissima è stata pochi anni orsono la pubblicazione di una raccolta molto accurata e ricca di testi sul Risorgimento, in 8 volumi, introdotta e curata da Lucio Villari. Poi, nel corso stesso del periodo di svolgimento delle celebrazioni, sono sopraggiunti nuovi apporti sul piano degli studi storici e delle interpretazioni del Risorgimento e della problematica dell’Unità d’Italia: di Massimo Salvadori, di Ernesto Galli della Loggia, di Emilio Gentile, di Alberto Mario Banti, di Adriano Viarengo, per non fare che qualche nome. E non posso trascurare anche apporti di studiosi stranieri, come quello di Lucy Riall su Garibaldi o di Gilles Pécout su Cavour. Infine, non avrei potuto, nei miei interventi e discorsi, seguire un filo coerente, e verificare o affinare dei giudizi storici, senza il dialogo con amici storici, con studiosi di alta qualità come Giuseppe Galasso, Massimo Salvadori, Rosario Villari. Ecco, credo che da questo quadro di riferimento da me sommariamente tracciato in chiave personale, possano trarre indicazioni di lettura utili per qualsiasi approfondimento coloro che siano interessati, specie se giovani, a compierlo». Lei ha sdrammatizzato alcune distorsioni delle dispute sul 150° rammentando che anche in qualche Paese di identità forte, come Francia e Stati Uniti, è in corso un dibattito pubblico sui temi identitari e della nazionalità. Citando Huntington, ha spiegato che «questi dibattiti sono una caratteristica pervasiva del nostro tempo» perché le crisi delle identità nazionali «sono divenute un fenomeno globale».
Sarebbe come dire che la globalizzazione tende a estremizzare la ricerca delle radici locali, con relative spinte centrifughe? Quale potrebbe essere l’antidoto al revanscismo delle piccole – talvolta piccolissime – patrie, dove ci si sente espropriati di sovranità anche a causa del processo di costruzione dell’Europa? «Che la globalizzazione possa determinare fenomeni di “spaesamento”, se così li vogliamo chiamare, suscitare un’ansia di smarrimento della propria identità nazionale o locale, mi sembra indubbio. Ma non credo siano fatali le spinte centrifughe o che esse non risultino dominabili e superabili. Comunque, non ritengo che vi siano nel nostro continente “piccole patrie” in cui ci si possa “sentire espropriati di sovranità” per effetto del processo di costruzione dell’Europa unita. L’autolimitazione delle sovranità nazionali a favore delle istituzioni comunitarie, da parte dei Paesi impegnatisi sulla via dell’integrazione europea, è stata, a partire dagli anni cinquanta dello scorso secolo, una scelta volontaria e consapevole, essendosi compreso che non vi era altrimenti alternativa a una fatale perdita di rilevanza dell’Europa in un mondo che cambiava e anche a una crescente impossibilità di risolvere – nella pace – sul piano strettamente nazionale problemi che oramai stavano travalicando quella dimensione».
Presidente, la tesi di chi contestava l’anniversario si fondava su questo giudizio: «Una storia comune degli italiani non esiste più e forse non è mai esistita». È una vecchia idea, che passa attraverso la scomposizione della carta cronologica del Paese nella quale si pretenderebbe di vedere solo una somma di fratture e discontinuità, cause della pretesa «immaturità» dell’Italia come nazione. L’eredità del passato, perciò, sarebbe sempre controversa e su di essa cova ancora il peso della questione meridionale. Lei ha cercato di sterilizzare anche questo argomento, ragionando sulla nostra identità plurale. Ha puntualizzando da un lato che il Sud «non subì» il moto risorgimentale, ma vi ebbe anzi attivamente parte, e dall’altro ha esortato gli italiani del Sud a essere «maggiormente responsabili del proprio futuro».
Ma che cosa bisognerebbe cambiare – anche sul piano della cultura civica – per spegnere questo ambiguo conflitto e mettere in sicurezza l’unità comune? Che cosa andrebbe fatto, ad esempio, per evitare che il federalismo di cui tanto si discute sia pensato e attuato «contro» l’Italia? «Ho confutato sistematicamente argomenti scarsamente fondati su una fatale dissoluzione della nostra unità nazionale o su una sua antica e nuova immaturità o irrealizzabilità. Non solo non ho negato ma ho messo in evidenza la gravità della maggiore incompiutezza del nostro processo di unificazione indicandola nel persistere della questione meridionale. Si tratta, ovviamente, di un tema di riflessione e di ricerca centrale non solo per chi vive e opera nel Mezzogiorno, ma per chiunque abbia a cuore le sorti e le prospettive dello sviluppo complessivo dell’economia e della società italiana e del rafforzamento dello Stato nazionale. Uno Stato che – fin dagli anni di quella solenne riflessione e anticipazione di futuro che fu il dibattito in Assemblea Costituente, che fu il lavoro creativo dell’Assemblea Costituente – ci siamo impegnati a riformare, innanzitutto nel senso di correggerne il vizio originario: e cioè l’impronta – sia pur storicamente inevitabile negli anni immediatamente successivi al compimento dell’unità, ma senza dubbio distorsiva – di una forte centralizzazione, quasi di una forzosa riduzione all’uniformità. In questo senso c’è ancora molto da fare, anche se non posso improvvisare alcuna breve ricetta nella risposta su questo punto».
Siamo alla vigilia di un anno al quale quest’Italia, che a volte sembra ripiegarsi nelle sue croniche debolezze e incline all’autoflagellazione (quella che Gadda chiamava «la porca rogna del denigramento di noi stessi»), si accosta con angoscia. La crisi che sta attraversando il pianeta colpisce in particolare noi. C’è un’immagine, un episodio, una persona, un libro di questo anno di celebrazioni attraverso il Paese che ricorda in particolare per averne magari tratto una carica d’incoraggiamento?
«Se mi chiede di citare un libro-chiave per la comprensione del processo unitario, non posso che citare l’opera completa, Cavour e il suo tempo , dedicata da Rosario Romeo al massimo artefice politico del successo storico dell’impresa risorgimentale. Il capitolo conclusivo di quell’opera rimane una sintesi mirabile. E se vuole che ricordi un’immagine e un episodio che mi hanno particolarmente colpito e motivato nel corso delle celebrazioni, citerò l’incontro (l’11 maggio 2010) sull’altura di Calatafimi, teatro di una sanguinosa e decisiva battaglia, nel 1860. Su quell’altura che dominava il campo di battaglia, mi sono fermato dinanzi ai cippi con i nomi dei caduti garibaldini provenienti da varie parti d’Italia, e segnatamente da città del Nord. Lì, ho come toccato con mano la prova tangibile, in un’atmosfera di grande emozione, di quella coesione e unità tra gli italiani cui dobbiamo guardare di nuovo oggi come all’arma vincente per superare le sfide del presente e del prossimo futuro».