Uno striscione comparso alla Columbia University contiene otto nomi alternativi a quelli che riassumono il retaggio greco-romano della cultura occidentale
Giovanni Belardelli Corriere della Sera 12 dicembre 2019
La Butler Library è la più grande biblioteca di una delle maggiori università americane, Columbia. La sua facciata in stile neoclassico porta incisi, sull’architrave che sormonta l’ampio colonnato ionico, otto nomi che riassumono il retaggio greco-romano della cultura occidentale, da Omero a Virgilio. Poche cose come quei nomi potrebbero sintetizzare meglio l’idea di un’America figlia dell’Europa e della sua cultura; ma è anche vero che poche cose come quella serie di nomi sono da tempo contestate negli Stati Uniti, soprattutto in un mondo universitario investito da anni da un vento in cui si alimentano vicendevolmente multiculturalismo e femminismo radicale. Così, proprio sopra l’elenco anzidetto, è comparso di recente un lungo striscione contenente otto nomi che dovrebbero costituire una specie di canone alternativo composto da donne, dalla poetessa afroamericana Angelou a una Silko che, confesso la mia ignoranza, non so chi sia.
Sarebbe facile ironizzare sul fatto che, per quanto si possano apprezzare i libri di Toni Morrison (anche lei nell’elenco alternativo), non ha molto senso affiancarli all’Iliade o all’Eneide, e anzi così facendo si renderebbe un pessimo servizio alla scrittrice. Ma non è questo il punto. Un gesto così simbolico e provocatorio come quello di contrapporre a otto giganti, tutti maschi e bianchi, i nomi di altrettante donne non bianche ci dice qualcosa di importante dell’America e in prospettiva, forse, anche dell’Europa. Conferma anzitutto che il cosiddetto melting pot non funziona più ed è stato sostituito piuttosto da un mosaico, fatto di tessere diverse, in cui ciascun gruppo ha ed esalta in modo tendenzialmente esclusivo le proprie caratteristiche identitarie, la propria storia, le proprie radici. Proprio come succedeva, viene da aggiungere, nell’Impero austroungarico che si dissolse un secolo fa. Nella celebre conferenza che dedicò alla nazione, Ernest Renan caldeggiava la necessità di condividere una «ricca eredità di ricordi». Ebbene, da tempo negli Stati Uniti, che si sentono sempre più una nazione di nazioni, ogni «nazione» coltiva i suoi di ricordi, che spesso sono opposti a quelli degli altri (si veda il caso delle polemiche, non molto tempo fa, sui monumenti della guerra civile nel Sud). Effettivamente per gli afroamericani i ricordi, non solo precedenti ma anche successivi alla guerra civile, sono tutt’altro che rosei: l’abolizione della schiavitù fu infatti seguita negli Stati del Sud da una condizione di soggezione di fatto, segnata da episodi di violenza e limitazione dei diritti, destinata a durare a lungo (ne offre un resoconto impressionante James Oakes nell’ultimo numero della New York Review of Books).
Ma lo striscione comparso sulla facciata della Butler Library ci dice anche qualcosa di ulteriore, soprattutto se lo leggiamo assieme ad altri episodi analoghi di una battaglia culturale indirizzata non solo a ottenere (giustamente) spazio nel presente e nel futuro per chi viene da una storia collettiva svantaggiata. Quella battaglia — si pensi alla condanna di Colombo come genocida o all’accusa di razzismo rivolta a Thomas Jefferson — sempre più si indirizza contro il passato. La lotta per l’affermazione dei propri diritti si è ormai volta all’indietro, vuole impadronirsi della storia e riscriverla. Non si tratta soltanto di includere in quella storia — come è giusto — anche gli schiavi o le donne soggiogate al potere maschile, insomma tutti gli emarginati, le vittime. Fosse solo questo, si renderebbe più ampia, comprensiva del passato di tutti, la storia americana, come vanno facendo libri e programmi tv che negli Usa mettono a fuoco le vicende degli afroamericani.
No, la nuova battaglia sulla storia è nella sua essenza una battaglia contro la storia, prima che come disciplina come dimensione cognitiva; rifiuta infatti la possibilità stessa di collocare uomini e donne nel loro tempo, ma li convoca, oggi e qui, di fronte a noi per condannarli se necessario (cosa che, date le premesse, avviene molto spesso). Il passato e il presente diventano contemporanei, perché contemporaneo è il criterio che li giudica e il metro di paragone delle azioni umane, quale che sia il secolo in cui si sono svolte. È una posizione che è già approdata in Europa, soprattutto (ma non solo) in Gran Bretagna, dove si è ormai diffusa molto se perfino Mary Bousted, segretaria nazionale del sindacato degli insegnanti, ha potuto bollare Shakespeare come «uno scrittore fortemente conservatore che scrisse molto per sostenere il diritto divino dei re».
Se questa tendenza a giudicare con i nostri criteri fatti e fenomeni del passato continuasse a diffondersi, non ci vorrà molto e ne sarà investita anche l’Atene del V secolo, che affidava democraticamente il governo ai cittadini maschi escludendone però donne e schiavi.