Alberto Asor Rosa La Repubblica 28 febbraio
Una caratteristica singolare del governo giallo- verde è di produrre deliberati, ognuno dei quali si presta a una serie infinita di obiezioni, di volta in volta più argomentate e agguerrite.
Un esempio evidente è la cosiddetta “ autonomia regionale differenziata”. Da un solo provvedimento si potrebbero cavare cento ben ragionate obiezioni. Io vorrei attirare l’attenzione su un campo tematico forse meno discusso: e cioè la scuola.
Non c’è ombra di dubbio che la scuola, dalla materna all’Università, rappresenti, insieme con pochissime altre branche dello Stato, una delle strutture unitarie ancora funzionanti. È chiaro che “l’autonomia regionale differenziata” avrebbe lo scopo di spezzare questa spina dorsale del Paese, ridurla in briciole, sottometterla a interessi particolari di ogni genere. Ci si può chiedere quali sarebbero gli effetti, su tutti noi, ma soprattutto sui nostri giovani, e quindi sul futuro di questo Paese ( se “ questo Paese” significa ancora qualcosa qui da noi).
L’Italia ha conquistato l’unità da un tempo incredibilmente vicino a noi: poco più di 150 anni! In precedenza — quasi sei secoli di storia, dal tardo Medioevo — l’unità è stata cercata, testardamente e intensamente, soprattutto da letterati, filosofi e intellettuali, come unità culturale e linguistica. Spinte centrifughe ce ne furono, come no: persino di natura linguistica e culturale. Ma la spinta unitaria prevalse sempre: alcuni dei teorici più lucidi dell’uso sempre più generalizzato e sistematico della lingua italiana furono veneti e lombardi; alcuni dei letterati e poeti più geniali della nostra storia letteraria sono stati emiliani, marchigiani e napoletani. Solo da un certo momento in poi le due spinte si sono saldate. La ricerca dell’unità culturale e linguistica diviene ricerca, più consapevole e ferma, dell’unità politico-istituzionale, e non è azzardato dire che la seconda non si sarebbe manifestata e imposta senza la ricerca secolare della prima. Quando l’Italia fu riunita, dopo secoli di divisione, non c’è ombra di dubbio che i padri costituenti affidassero alla scuola un compito primario di autoriconoscimento e unificazione.
Dunque, chi voglia oggi attentare all’unità dello Stato italiano non può fare a meno di colpire l’unità della scuola. E però: c’è un’alternativa? Il punto è proprio questo: non c’è un’alternativa; ma solo un precipizio mentale, in cui non resterebbe che farsi inghiottire dalla mancanza di cultura e di lingua. Non c’è una cultura ligure, veneta, marchigiana, laziale, campana, calabrese da sostituire alla “cultura nazionale italiana”. Se si vuole parlare al resto dell’Europa e del mondo, bisogna partire da questa lingua, e ripartire, per quanti utili sforzi di rinnovamento si facciano, da questa cultura.
Si capisce che i riformatori — “sovranisti” anche a livello regionale, per colmo di paradosso — sarebbero indifferenti a questo discorso. Più esattamente: ne ignorano anche i dati più elementari (cultura? lingua? puah, che roba sorpassata!). Ma qui bisogna tentare di parlare al resto del Paese: quello che sarebbe vittima sacrificale — anche se talvolta inconsapevolmente consenziente — dell’operazione che si sta progettando. Perché l’Italia e gli italiani non si ritrovino in quel precipizio bisogna che la scuola resti unitaria, anzi accentui sempre di più e meglio questa funzione.
Semmai sarebbe da chiedersi perché, già prima di arrivare alla “ autonomia regionale differenziata”, la scuola sia stata considerata da tutti i governi di tutti i colori negli ultimi decenni un secondario motivo d’interesse nazionale, un bene rifugio per ministri d’infimo grado. Dovrebbe esser chiaro: ci si oppone seriamente alla prospettiva catastrofica solo se si considera la prospettiva scolastica nazionale una delle chance fondamentali della nostra politica. L’identità culturale e linguistica non è un patrimonio che si autoconserva. Ha bisogno di un investimento politico e culturale (insisto: culturale) di altissimo livello. Ma così stiamo andando troppo lontano.