Anche il Tamburino creato da De Amicis serve a ricordare
Frediano Sessi Corriere della Sera 8 agosto
«Nella prima giornata della battaglia di Custoza, il 24 luglio del 1848, una sessantina di soldati d’un reggimento di fanteria del nostro esercito, mandati sopra un’altura a occupare una casa solitaria, si trovarono improvvisamente assaliti da due compagnie di soldati austriaci, che tempestandoli di fucilate da varie parti, diedero loro appena il tempo di rifugiarsi nella casa e di sbarrare precipitosamente le porte». Dalla collina, scrive De Amicis, veniva «un fuoco d’inferno, una grandine di palle di piombo che di fuori screpolava i muri e sbriciolava i tegoli, e dentro fracassava soffitti, mobili, imposte, battenti, buttando per aria schegge di legno e nuvoli di calcinacci e frantumi di stoviglie e di vetri, sibilando, rimbalzando, schiantando ogni cosa con un fragore da fendere il cranio». Così inizia la storia del «tamburino sardo», un ragazzetto sulle cui spalle sta la salvezza dei soldati italiani assediati. Incaricato dal vecchio capitano di cercare rinforzi a fondovalle, giù a Villafranca, si cala dalle finestre della casa e corre, all’impazzata, senza curarsi della ferita alla gamba: vuole salvare quegli uomini chiusi nella casa sulla collina e vincere la battaglia. Quando ormai tutto sembra perduto, ecco giungere i rinforzi: i carabinieri. Il piccolo tamburino sardo aveva portato a termine la missione. Qualche giorno dopo, il vecchio capitano, facendo visita a un ospedale da campo, trova il tamburino, ferito e pallido. A causa della corsa e della ferita subita, i medici militari avevano dovuto amputargli una gamba. E De Amicis, racconta che il vecchio ufficiale, togliendosi il cappello, gli disse: «Io sono un semplice capitano, tu sei un eroe». Tra queste colline lo stesso De Amicis combatté, ventenne, con il grado di tenente di fanteria, nel giugno 1866, la Terza guerra d’indipendenza: da un lato l’esercito italiano, guidato da re Vittorio Emanuele II, e dall’altro gli austriaci dell’arciduca Alberto d’Asburgo. Una storia dimenticata anche nelle aule della scuola italiana; ma più spesso dimenticati sono i luoghi e i memoriali che ancora oggi ci parlano delle vittime, della violenza di quegli scontri quasi sempre terminati all’arma bianca. Nel suo libro più famoso, Cuore, De Amicis raccontò anche questa guerra patriottica per la libertà e il risorgimento dell’Italia, con storie che, seppure frutto della sua fantasia di scrittore, ci restituiscono il sentimento di quelle sanguinose battaglie. Le rare lapidi che le ricordano, spesso nascoste tra i vigneti delle colline veronesi o mantovane, messe in ombra da nuovi insediamenti abitativi o artigianali, da case o strade percorse da turisti alla ricerca di buon cibo e ottimo vino, ci chiamano, inascoltate, alla memoria dei fatti, per ricordarci che l’Italia deve loro almeno il ricordo del sangue versato. Oggi, ad assolvere questo compito, per la valle e le colline di Custoza, è arrivata una guida storico-turistica (Ossario di Custoza, Ombre Corte/Crea, pp. 223, euro 16) che ci accompagna nella storia e nella memoria dei luoghi, con fotografie, carte, itinerari: come un museo diffuso cartaceo, unico nel genere in Italia, e per queste terre. Curata, tra gli altri, dallo storico Carlo Saletti, ci accompagna, tra l’altro, in quel «luogo mesto» che è il monumento «ossario», inaugurato nel 1879. È ancora De Amicis che dopo le storie strappalacrime del «tamburino sardo» o della «piccola vedetta lombarda», nel suo meno noto Vita militare, ci dice di «soldati che impugnano la baionetta, si afferrano alla gola, si avvinghiano, cadono, risorgono, pallidi, ansanti, coi denti serrati, le teste scoperte e sanguinose». Non li dobbiamo dimenticare.