Franco Camarlinghi Corriere Fiorentino 22 marzo
Può darsi che abbia ragione Tomaso Montanari quando, nella recensione sulla mostra Nascita di una Nazione (Venerdì di Repubblica), scrive che parlare degli anni cinquanta e sessanta significa parlare della giovinezza della maggior parte di coloro che visiteranno Palazzo Strozzi.
Faccio parte della categoria e, appena posso, mi presento alla biglietteria. La mostra è bella, così come l’allestimento, e il rosso che via via diventa dominante nelle opere esposte dà la sensazione di un bel colore che avvolge il visitatore: sul momento non mi passa per la testa nient’altro. Torno indietro e ricomincio da Renato Guttuso e da La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, quella delle Frattocchie, la scuola del Pci, il luogo dove abitava Palmiro Togliatti. All’inizio degli anni settanta mi capitò di andare a trovare in Piazza del Grillo il Maestro, insieme a Fernando Farulli, per chiedergli di fare da tramite per realizzare a Firenze un’esposizione di Picasso. Fu chiaro che Guttuso avrebbe voluto essere lui richiesto per un’iniziativa del genere, battezzò Farulli come il Guttuso fiorentino e tutto finì in quel momento. Chissà perché mi torna in mente quell’episodio, poi lo capisco: nel Pci veniva al dunque lo scontro culturale fra il sostegno a linguaggi dell’arte che erano appartenuti a un’epoca passata e tutto ciò che era avvenuto anche in Italia dal dopoguerra in poi e che la mostra di palazzo Strozzi rende evidente. Le nuove generazioni identificavano Guttuso nel realismo d’antan della Battaglia di Ponte di Ponte Ammiraglio.
A Firenze per ricostruire quella storia bastava incontrare Vinicio Berti e fargli raccontare, con toni inconsolabili, la stroncatura di Togliatti dell‘Astrattismo classico.
Faticosamente lo spazio per le tendenze che ormai erano dominanti all’esterno del Pci, si sarebbe imposto anche nell’iniziativa pubblica che dopo il’75 avrebbe visto i comunisti protagonisti nelle maggiori città italiane. Giulio Carlo Argan sindaco di Roma, nel’76, ne fu il riconoscimento più evidente.
Riprendo il cammino da Turcato, Burri, Fontana, Vedova fino al trionfo del rosso di Mario Schifano e di Franco Angeli. Un po’ mi commuovo di fronte a Fausto Melotti: avevamo pensato a una sua mostra al Forte di Belvedere che poi fu fatta e fu bellissima, come ovvio. La fecero terminare prima del tempo e lui ci rimase male, ma non protestò. Quando morì riuscimmo a ottenere una deroga per la sua sepoltura nel cimitero di San Felice a Ema: voleva stare accanto al suo grande amico Montale.
Ancora ricordi: fra questi, Burri e la mostra in Orsanmichele, l’amicizia con Franco Angeli nell’ultima parte della sua vita, quando lavorava a Firenze per una importante
Galleria e per le scene di un balletto al Teatro Comunale. Certo: potrebbero essercene altri di artisti di quei due decenni e fra loro anche fiorentini, ma l’insieme è di sicuro significativo. Però: significativo di che, a parte il valore artistico? Viene reso chiaro, per il fatto che la maggioranza degli artisti presenti nella mostra era vicina o addirittura militante nel Pci, quanto lunga e faticosa fu la battaglia per cambiare il punto di vista conservatore che caratterizzava la classe dirigente di quel partito. Ma ciò concerneva la ricerca di nuovi linguaggi dell’arte nel rapporto con la realtà, o che altro?
Questi artisti, al di là di quanto detto sopra, lavoravano incontro alla Nascita di una Nazione, come recita il titolo della mostra? Si può identificare nel rosso delle bandiere o delle falci e martelli di Franco Angeli o nello sfondo di Compagni compagni di Mario Schifano l’idea di nazione? La relazione con il Pci o la sinistra italiana costituiva la sponda giusta per un discorso del genere?
L’incipit delle lezioni milanesi del `43/44 di Federico Chabod ci può guidare nell’affrontare una tale questione. «Dire senso di nazionalità, significa dire senso di individualità storica».
L’individualità di una nazione, la sua unicità, al di là delle divisioni di classe, di ceto e di condizione sociale, la distanza da appartenenze diverse in nome dell’internazionalismo. L’Italia si è data uno stato nazionale nel 1861, ma le divisioni territoriali e sociali hanno costantemente messo in dubbio (guardare la situazione attuale, per capire) l’esistenza di caratteristiche nazionali unificanti.
Non era il Pci e la sinistra il contenitore giusto per una tale ambizione e del resto nessuno che militasse in tale contesto, negli anni a cui si riferisce la mostra, aveva al centro dei propri pensieri il problema della nazione, casomai della rivoluzione, come anche si può supporre da molte opere che sto vedendo.
La nazione è per definizione «una» e di nessun colore e il clima politico nella sinistra a cui guardavano gli artisti di cui abbiamo parlato era fra i più divisivi, per cui fare una nazione di bandiere rosse era allora e lo resta oggi non poco contraddittorio.
Pensieri di un giovane di allora: resta il fatto che quei pittori e scultori che tanto dispiacevano a Togliatti, col passare del tempo, sono diventati protagonisti della scena artistica internazionale.