Nel nuovo volume «Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una “disfatta” edito da Einaudi riemerge una visione che incolpa la Chiesa per i guai italiani e svaluta il Risorgimento
Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 15 marzo
Ci sono libri che hanno il valore di un segno dei tempi. Il volume appena uscito di Alberto Asor Rosa — Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta, Einaudi — è uno di questi. Indirettamente esso testimonia, infatti, della vastità e profondità della crisi in cui oggi è precipitato il nostro Paese, che proprio perché tale, come tante altre volte in passato sollecita a riandare alla vicenda storica italiana e ad altre «disfatte». Cioè a ripensare l’Italia per rintracciare cause e modi della sua incompiutezza, del perché a tempo debito non siamo riusciti a essere uno Stato come gli altri d’Europa con i quali amiamo confrontarci.
È quanto per l’appunto fa Asor Rosa con un’urgenza e una passione non comuni, in pagine nelle quali risuonano spesso termini come «identità», «nazione», perfino «stirpe». Con accenti tanto più significativi, mi pare, considerando la vicenda politico-culturale del loro autore, così rappresentativa per molte sue parti — dai lontani trascorsi operaisti alla lunga e multiforme militanza nel Pci fino alla presa di distanza rispetto agli attuali esiti «democratici» — di quella di tanta intellettualità della sinistra italiana.
Dunque Machiavelli e il suo resoconto della disfatta capitale occorsa alla Penisola tra il 1494 e il 1531, quando in seguito alla calata di Carlo VIII e allo scontro tra Francia e Spagna si stabilì in essa un dominio straniero destinato a durare secoli. Ma va subito detto che, insieme o forse prima di questo Machiavelli analista eccezionale dei mali d’Italia, Asor Rosa ci restituisce, attraverso l’epistolario — magistralmente esplorato e utilizzato in una sorta di contrappunto tra Niccolò da un lato e Francesco Vettori e Francesco Guicciardini dall’altro — un affascinante e forse non troppo noto Machiavelli in carne ed ossa. Un uomo fatto di «alto» e di «basso», di panni curiali e di amori mercenari, di passioni e di scoramenti, di alti pensieri e di accortezze tattiche per ritornare nel giro del potere dopo che ne è stato escluso. Ritiratosi in campagna proprio in conseguenza di tale esclusione, Machiavelli redige nel Principe (1513) il drammatico referto della catastrofe italiana ormai dilagante intorno a lui. Ed è per l’appunto seguendo i vari capitoli del suo libro che Asor Rosa ricostruisce i termini di quel referto che sarebbe rimasto come una pietra miliare nella storia del pensiero politico e insieme dell’autocoscienza nazionale italiana.
La catastrofe che manda in frantumi il «bel vivere» italico, che pure nella seconda metà del Quattrocento sembrava aver pur trovato un definitivo equilibrio geopolitico tra i vari Stati grazie all’abile regia di Lorenzo de’ Medici, è definita secondo l’analisi machiavelliana da tre parametri: a) come ritardo rispetto alle grandi monarchie europee nella costruzione di un saldo potere centralizzato capace di contare su una propria struttura militare anziché su milizie mercenarie; b) come radicale inadeguatezza delle classi dirigenti della Penisola, innanzi tutto nel comprendere la nuova situazione e nel trovare il modo di farvi fronte conservando la propria libertà d’azione; c) come conseguente drammatica perdita di autonomia, di possibilità di autodecisione da parte dei soggetti politici italiani. Anche se occorre ricordare che nel Principe — proprio per il carattere dell’opera, che si presenta come un trattato di precettistica sull’arte del governo — i parametri anzidetti, più che essere esplicitamente enunciati e sistematizzati in riferimento ad una «questione italiana» in generale, sono perlopiù desumibili dagli esempi che nel corso della trattazione Machiavelli fa dei modi che un «principe nuovo» deve tenere per fondare e rafforzare il suo Stato (esempi, questi sì, puntualmente tratti da fatti e uomini della Penisola, a cominciare dall’esempio paradigmatico costituito dal tentativo di Cesare Borgia di stabilire il proprio dominio sulle Romagne).
Sono comunque, questi di Machiavelli, tre parametri che nella nostra tradizione storico-culturale acquisteranno rapidamente, come è noto, il carattere di un paradigma interpretativo della catastrofe italiana pressoché universalmente accettato. Così come del resto un carattere altrettanto paradigmatico verrà universalmente attribuito a quella disfatta cinquecentesca, quasi emblema e prototipo di ogni futura disfatta della nazione.
Il libro di Asor Rosa s’iscrive a pieno titolo, e vorrei dire appassionatamente, nel solco di questa tradizione. E — non da ultimo, presumo, anche per contrastare l’aria dei tempi — il suo autore insiste sulla portata fondativa del pensiero politico moderno che è nell’opera di Machiavelli: in certo senso sulla vera e propria scoperta della politica che a lui si deve. E dunque sul rapporto tra libertà e necessità che egli pone al centro della dimensione politica; sulla combinazione di «virtù» e «fortuna» che nel celeberrimo giudizio di Niccolò sempre guida l’azione politica di successo e chi ne è autore; su ciò che i due termini implicano. Ed è anche (o forse soprattutto?) in tale ambito, nell’ambito del «vivere politico», sottolinea giustamente Asor Rosa, che la catastrofe italiana ha dispiegato i suoi effetti malefici e duraturi. Nel far rapidamente diventare da allora in poi «la politica l’arte di sfruttare a proprio vantaggio tutte le occasioni possibili: non di combatterle o mutarle in qualche modo». Dopo la disfatta, insomma, nelle vene delle classi dirigenti e degli intellettuali italiani è entrata l’idea avvelenata che «non ci può essere mutamento ma solo una qualche forma di sopravvivenza». Anche da qui la tragica mancanza di capi che caratterizza la vicenda delle élite della Penisola, sintomo primo della loro «ignavia», della loro mancanza di «virtù».
Come si sarà capito la lettura che Asor Rosa fa di Machiavelli e del modo in cui il segretario fiorentino vive e concettualizza la disfatta italiana va nel senso di intendere l’uno e l’altra all’insegna di una piena consonanza con il nostro tempo. In armonia del resto con quella costante tradizione intellettuale italiana, che nel segretario fiorentino ha sempre visto un interprete dei mali d’Italia di perenne attualità (basta pensare al lunghissimo capitolo che gli dedica nella sua Storia Francesco De Sanctis, che nel machiavellismo riusciva a vedere niente di meno che «il programma del mondo moderno»).
Nascono proprio da qui, tuttavia, le domande spinose che questo libro sollecita, come solo i libri importanti sanno fare. Domande che riguardano innanzi tutto la nostra storia passata e insieme la tenacissima tradizione interpretativa di essa che per lungo tempo ha tenuto il campo e nella quale ancor oggi Asor Rosa sostanzialmente si riconosce. Le riassumo con inevitabile secchezza: davvero la Chiesa è la «responsabile sopra tutti», come voleva Machiavelli, della storica disunione della Penisola, del suo «non essere potuta venire sotto uno capo»? Davvero è per causa sua che gli italiani «sono diventati sanza religione e cattivi»? Davvero queste due celebri tesi del Principe possiedono «la grande potenza ermeneutica» e al tempo stesso «l’ineguagliabile persuasività» che attribuisce loro anche Asor Rosa?
Personalmente ne dubito. Per la moderna disunione italiana non avrà ad esempio contato moltissimo, mi chiedo, la frantumazione urbano-municipale della Penisola ereditata dall’età romana e assolutamente unica in Europa? Non saranno state decisive la sua straordinaria peculiarità geopolitica, l’assoluta diversità di provenienza e di cultura delle diverse ondate invasive che dopo il IV-V secolo si rovesciarono su di essa? Un emirato saraceno a Bari, i Bizantini a Napoli, i Normanni a Palermo, i Longobardi e poi i Franchi più o meno nel resto, non costituiscono già di per sé una bella ipoteca di divisività, senza dover per questo pensare agli intrighi della Curia romana? E si può ragionevolmente credere che in tali condizioni il papato avrebbe potuto/dovuto affidare tranquillamente le proprie sorti a uno o all’altro dei suddetti poteri? Ma se non lo si crede possibile (come è ragionevole fare), allora che cosa bisogna concluderne? Che in fin dei conti la «colpa» della disunione italiana è puramente e semplicemente dell’esistenza della Chiesa di Roma in quanto tale? Cioè, per esser chiari, della decisione presa un bel giorno da tali Pietro e Paolo di venire a Roma a propagandare le loro singolari opinioni religiose?
La verità è che nel Principe, dietro la prospettiva apparentemente storica messa in campo per spiegare le cause della «disfatta italiana», non è difficile scorgere, viceversa, una declinazione fortemente iperpoliticistica del problema (del resto perfettamente spiegabile in un uomo come Machiavelli, per esperienza e vocazione totus politicus e in quegli anni sotto la schiacciante impressione di una crisi in primis politica). Non solo, ma a dispetto di ogni pretesa di realismo, e come spesso capita una volta che ci si mette su questa strada, quelle pagine mostrano una altrettanto forte vena moralistica legata al bisogno di trovare un «colpevole». «il» colpevole (la Chiesa appunto). Politicismo e moralismo: due elementi che con la storia non hanno molto a che fare, ma che, forti dell’avallo machiavelliano, hanno contribuito non poco, mi sembra, a radicare nell’intellettualità italiana un modo di guardare e di giudicare le cose della politica che è lecito chiedersi quanto abbia favorito e favorisca l’esatta comprensione dei veri termini della politica stessa.
La permanente attualizzazione di Machiavelli operata dalla nostra tradizione intellettuale è servita in realtà, specie ai colti, per riproporre di continuo la questione italiana — innanzi tutto la questione della statualità italiana — come questione sempre irrisolta anche quando lo era stata, ma erano i suoi modi che non piacevano. E quindi per continuare a invocare e pensare un «principe nuovo» che dotato di «armi proprie» riuscisse a dar vita finalmente a un sospirato «principato nuovo», magari capace anche di liberare una volta per tutte il Paese dalla sua corruttela. In una visione delle cose dove tutto, però, è stato sempre immaginato muovere inevitabilmente dall’alto e avere un’impronta quasi demiurgica: evitando perciò di fare i conti con i reali meccanismi sociali esistenti e non avendo proprio l’aria di essere congruo con i tratti della modernità politica. Ricordando un altro celebre lavoro di Asor Rosa verrebbe quasi dire che machiavellismo e populismo sono stati due facce dello stesso modo di guardare da parte dei colti alle vicende del loro Paese.
Colpisce comunque come nelle pagine finali del libro di Asor Rosa si respiri qualcosa molto à la Machiavelli, qualcosa cioè che arieggia un’aspettativa e insieme anela a un avvento risolutivo, a una riscossa dopo la disfatta. È la postura tipica per l’appunto del perenne machiavellismo italiano. Il quale conduce anche qui, ancora una volta, a due esiti diversi, ma entrambi profondamente contraddittori. A dover tacere, quasi fosse cosa irrilevante, che nella Penisola, dopo Niccolò, «un principe nuovo» dotato di armi più o meno proprie comunque bene o male c’è stato (si chiamava Cavour e come è noto ha fondato lo Stato unitario italiano); ovvero ad ammettere che sì, certo, un «principe» di tal genere nella nostra storia lo si è pur visto — sarebbe stato incarnato secondo Asor Rosa dalla Resistenza (sulle cui «armi proprie» mi sentirei peraltro di avere più di un dubbio) — senza però che poi ci venga fornito il minimo accenno alle ragioni per cui, a quel che sembra, neppure questa rottura storica si sia rivelata davvero risolutiva.