Il Romanzo della Nazione che poteva essere e non è stata: le storie familiari dello scrittore incrociate con quelle degli uomini che lavoravano al Regio Arsenale della Spezia tra ’800 e ’900
Cesare Martinetti La Stampa 28 agosto
Prendiamo per esempio Faraut Michele, classe 1832, nato nella valle del Pellice, valdese, a tredici anni mozzo su una fregata piemontese, dal ’48 con Garibaldi nella Repubblica Romana e tra i Mille, e poi, per conto del generale, a Porta Pia. Il suo ritratto è su un ritaglio de La Fraternità dedicato ai volontari morti nel grande colera del 1884. Era andato a dare una mano, con lo stesso spirito con cui aveva attraversato tutte le rivoluzioni italiane dell’800. E ad appena 52 anni ha la faccia di un vecchio baffuto e un cravattino a gassa da marinaio. Oppure Bezzi Cristoforo, classe 1797, di Como, a sei anni in filanda a rigugliare gli orditi spezzati sui telai, un lavoro riservato ai bambini e alle loro piccole dita. A undici anni scappa a Nizza e si arruola come tamburino su una fregata di Bonaparte, che poi segue fino all’Elba, uno dei trenta intimi dell’Imperatore sull’«Indomable». A Porto Ferraio impara il mestiere del «ralmigatore», l’uomo che cuce gli orli alle vele. Dopo Waterloo va a Malta, poi a Cipro, poi a Tunisi (e in ogni porto una moglie e dei figli…), incontra Garibaldi, lo segue a New York. Nel 1860 è tra i Mille. A 77 anni viene assunto dal Regio Arsenale perché è il più bravo ralmigatore del Mediterraneo; a 84 va in pensione.
L’intuizione di Cavour
Due vite come un romanzo, in mezzo a migliaia di vite che sono altrettanti romanzi e tutte quante insieme avrebbero potuto dare carne, ossa e passioni al «Romanzo della Nazione». Ingegneri, calderai, scarriolanti, fabbri, facchini, tornitori, falegnami, pittori, manovali, sarte, badilanti, cuoche, pellai, vetrai, congegnatori, architetti, battilama, ottici, fuochisti, ferrovieri, artificieri, inventori, carrai, scritturali, ragionieri, scalpellini, medici. E naturalmente i marinai: piloti, cannonieri, fucilieri, macchinisti, nocchieri, timonieri…
Siamo alla Spezia, seconda metà dell’800, in quel golfo che fino ad allora era stata una cartolina per poeti, e che invece il visionario Cavour, osservandolo dall’alto, aveva capito potesse diventare il porto militare più importante d’Europa. Nacque così il Regio Arsenale e in esso l’ambizioso progetto di costruire la «Dandolo», la corazzata più potente del mondo. Le maestranze arrivano da tutta l’Italia, un Paese che non è più la «povera ancella» leopardiana, ma sta diventando uno Stato. Vengono perfino dal defunto regno delle Due Sicilie, dalle scuole di Pozzuoli e dai cantieri di Castellammare, dalla Nunziatella: la crema degli ingegneri (con i torinesi i più bravi erano proprio i napoletani), degli ufficiali di comando, i meccanici e i marinai scampati a Lissa. Decine di migliaia di persone: là si costruiva un popolo, anzi si resuscitava un «popolo da quell’inane polvere umana che era stato per secoli». Tutti i lampi dell’800 e i primi bagliori del ’900 si irradiavano da quel cantiere, costituenti e anche sovversivi, all’insaputa del governo e del re: come Francesco Zannoni, amico di Mazzini e capo della Falange Sacra, il braccio armato della Giovine Italia; o Felice Orsini, che pagò sul patibolo l’attentato fallito a Napoleone III.
Il padre disilluso
Nel suo nuovo libro Maurizio Maggiani recupera questa storia e queste storie per tracciare le linee di quello che poteva essere Il Romanzo della Nazione ( Feltrinelli, pp. 297, € 17). Poteva essere ma non è stato perché quel «popolo nuovo dentro un’epoca nuova» non è mai diventato «Nazione». E perché – in un incipit dalla prosa asciutta che echeggia Camus – lo scrittore ci informa che «lo scorso inverno è morto mio padre». Disgraziatamente. Era lui lo «scrigno», il «serbatoio dove erano conservate le spoglie della Nazione». Era uno dei figli dei figli, cresciuti dentro e intorno al Regio Arsenale, per le vie e la città della «Grande Contraddizione Motrice».
È sul letto di una casa di cura, con le brache del pigiama in mano e lo sguardo perduto, che il padre rivela disilluso al figlio: «Non ce la faccio…». Il costruttore della Nazione che avrebbe potuto essere insieme agli eredi di quel popolo, sentenzia: «Vivere di sogni è un’utopia». La vicenda famigliare di Maggiani diventa così la parabola intima di una grande storia collettiva. Quel padre operaio, con le mani spesse, eppure capace di scrivere poesie, o di viaggiare di notte da clandestino sui treni merci per arrivare al teatro Regio di Parma (Verdi, Puccini non sono forse loro un grande «romanzo nazionale»?) e poi cantare al suo bambino come ninnananna, a voce bassa, le grandi arie dell’opera, alla fine si arrende smarrito: «Non ce la faccio…».
Per guardare dal vivo i costruttori di nazioni bisogna allora pensare a quel giovane polacco, arrivato chissà come alla Spezia, la famiglia sterminata nella Shoah, lui con il sogno di salire sulla «Fenice», una «Exodus» clandestina per ebrei in vista di Gerusalemme. Aveva in dote solo un po’ di papirose, le sigarette dei mugiki russi che gli avevano regalato i liberatori dell’Armata Rossa, dall’inequivocabile retrogusto di letame. Ma al ragazzo polacco piacevano, non aveva tempo per fare lo schizzinoso, doveva andare a costruire la «sua» Nazione e i partigiani lo misero in testa con la bandiera di Israele nel corteo della prima festa del 25 aprile (1946). O bisogna pensare ad Anna, erede anche lei del popolo della Dandolo e che ora fa la spola tra palestinesi e israeliani, misurando cosa vuol dire costruire quell’idea di Nazione che in Italia è morta, «morta davvero».
Il paradosso «Dandolo»
Maurizio Maggiani scriverà altri libri e li leggeremo con lo stesso piacere, ma questo è il romanzo di una vita e della sua vita, dove convergono e si intrecciano tutti i fili della sua narrativa. Ed è la sua utopia: non tanto il «romanzo» della Nazione, ma la Nazione, o meglio quella Nazione mitizzata nell’inseguimento ostinato di un’Italia sovversiva nel suo essere un popolo per bene, consapevole, giusto, solidale, rigoroso, fiero del suo lavoro, un incrocio tra Mazzini e Garibaldi, pensiero e azione, una Nazione laica, senza servi né padroni, tappa necessaria per continuare a guardare – nonostante tutto – all’orizzonte mai deposto di una «futura umanità».
Alla fine della sua paradossale storia, la Dandolo (varata nel 1878) non ha mai esploso in guerra un solo colpo dai suoi quattro potenti cannoni da 450 mm, ma ha dato un senso simbolico alla sua vicenda offrendo soccorso nei giorni del terremoto di Messina 1908. Ultima missione prima del disarmo. Neppure questo libro costruisce una Nazione che forse non ha mai desiderato davvero essere tale, ma salva una nobile memoria e con essa delle vite. Anche quella di Maggiani.