Nel 1849 il feldmaresciallo asburgico favorì l’ascesa del nuovo re che avrebbe mosso guerra all’Austria due volte. La biografia del sovrano di Adriano Viarengo
Paolo Mieli Corriere della Sera 22 marzo
Agli interlocutori austriaci il ventottenne Vittorio Emanuele — appena asceso al trono dopo l’abdicazione del padre, Carlo Alberto, successiva alla sconfitta di Novara nel 1849 — parve un sempliciotto.
O anche peggio. Il primo che lo incontrò fu un generale, il barone Constantin d’Aspre, che così ne riferì al presidente del Consiglio austriaco Felix zu Schwarzenberg: «Mi disse dei Lombardi designandoli come canaglie, del generale Bava qualificandolo come imbecille; senza usare lo stesso epiteto, mi parlò nello stesso senso del padre. Tutto ciò dà la misura del suo carattere e della sua prudenza». E l’ambasciatore austriaco a Torino, il conte ungherese Rudolph von Nagy-Apponyi, nel 1850 lo descriveva in questo modo: «Gli manca l’interesse per gli affari di Stato nonché la portata di spirito necessaria per giudicare la gravità della situazione, e rendersi conto della serietà e dell’energia con le quali bisognerebbe tenere le redini dello Stato nella presente congiuntura. Ma, occupato soprattutto in intrighi galanti di basso conio, che nuocciono infinitamente al suo prestigio, il Re si mescola poco al governo e lascia fare il ministero».
Eppure il feldmaresciallo Radetzky, che lo aveva incontrato una prima volta al suo matrimonio riportandone l’impressione di un ragazzo leale, decise di puntare su di lui, di aiutarlo a consolidarsi sul trono. E di consentire che gli fosse cucita addosso la «leggenda di Vignale», dal nome della località dove i due si incontrarono dopo la sconfitta dell’esercito sabaudo e il giovane sovrano tenne duro resistendo alle pretese austriache e minacciando il ritorno alle armi (o, quantomeno, così disse di aver fatto). Vittorio Emanuele, scriveva Radetzky a Schwarzenberg, «è un uomo enormemente semplice. Se si mettesse in rilievo la sua persona come salvatore del Paese, se si dicesse cioè chiaramente e nettamente che soltanto per deferenza nei suoi confronti… trattiamo con il maggior riguardo possibile il Paese che si è reso così gravemente colpevole verso l’Austria… noi agiremmo, secondo la mia piena convinzione, nel modo migliore». Ed è quel che gli austriaci, reduci dalla vittoria sul Regno di Sardegna, fecero, ponendo di fatto la prima pietra per la costruzione del monumento a Vittorio Emanuele II. Quel Vittorio Emanuele che — forse inconsapevole del «dono» iniziale di Radetzky o forse soltanto ingrato — li avrebbe sfidati in altre due guerre. Ma perché gli austriaci nel 1849 puntarono su quel giovane sovrano?
Aveva appena un anno, nel 1821, Vittorio Emanuele, quando suo padre, Carlo Alberto di Savoia Carignano, rischiò addirittura di essere estromesso dalla linea dinastica. Regnava allora Vittorio Emanuele I, che non aveva eredi maschi (così come non li aveva suo fratello, Carlo Felice, destinato a succedergli), e il Regno di Sardegna fu terremotato da un pronunciamento militare in cui erano coinvolti giovani borghesi illuminati, figli di ministri e persino ufficiali dell’esercito. I cospiratori chiedevano l’adozione della Costituzione spagnola del 1812, nonché una prova di forza con l’Austria: l’allora ventitreenne Carlo Alberto ritenne di farsi interprete di queste istanze e ne perorò la causa presso il re in carica. Vittorio Emanuele I, spaventato, si dimise all’improvviso, cedendo lo scettro al fratello Carlo Felice. Il quale però si trovava a Modena, cosicché il comando passò, provvisoriamente, nelle mani dello stesso Carlo Alberto. Il quale accettò su due piedi di promulgare la Costituzione spagnola (fatta salva — tenne a mettere per iscritto — l’approvazione del legittimo sovrano). La rabbia di Carlo Felice per quell’alzata d’ingegno fu grandissima: Carlo Alberto su due piedi fu mandato via da Torino assieme alla moglie, l’arciduchessa d’Asburgo Lorena Maria Teresa, secondogenita del granduca di Toscana, e al loro bambino, il futuro re dell’Italia unita, che durante il viaggio a Nizza, Marsiglia, Livorno per raggiungere Firenze — racconterà la madre — «gridava come un disperato finché non lo abbiamo calmato con olio e zucchero».
Uno dei meriti di Adriano Viarengo è quello di essersi soffermato con grande attenzione, in Vittorio Emanuele II (che sta per essere dato alle stampe da Salerno), sulla vita del futuro re antecedente alla sua ascesa al trono. Non per avanzare stravaganti ipotesi su tracce delle vicissitudini di Carlo Alberto rimaste nella memoria del figlio, bensì per approfondire quanto quel particolare frangente — 1821 e anni successivi — abbia inciso sulla storia dell’intera famiglia. L’8 aprile del 1821, i rivoluzionari piemontesi furono facilmente sconfitti (anche stavolta a Novara) da un corpo militare composto da austriaci e truppe lealiste. E quel giorno Carlo Alberto, puntualizza Viarengo, finì «per essere considerato traditore tanto dalle forze conservatrici quanto, per la sua fuga, da quelle rivoluzionarie». Ma l’irritazione di Carlo Felice nei confronti di Carlo Alberto fu tale «da far temere che intendesse escluderlo come traditore dalla linea di successione». Sicché quel giorno rischiarono di non ereditare la corona né Carlo Alberto né il futuro Vittorio Emanuele II. La sera del 29 giugno 1821, a Firenze, il principe meditò il suicidio. Secondo una nota della polizia granducale, Carlo Alberto «chiese con insistenza e ottenne che gli fossero portate le sue pistole, la moglie e lo scudiero che accorsero lo trovarono con lo sguardo fisso su di esse e in uno stato di quasi delirio».
L’inchiesta successiva peggiorò le cose, dal momento che portò alla luce il tema dei «compromessi»: si scoprì che, a fronte di una estrema debolezza sul piano tattico e militare, i rivoluzionari avevano avuto successo, un grande e imprevedibile successo, nel coinvolgimento di ampi strati della borghesia torinese. I «compromessi», appunto. Ed erano questi coinvolgimenti che avevano spaventato Vittorio Emanuele I, inducendolo addirittura a dimettersi. Carlo Alberto, forse per giovanile ingenuità, si era lasciato coinvolgere nelle manovre destabilizzanti e Carlo Felice non lo dimenticò mai. Fino a qualche tempo prima, il nuovo sovrano aveva trattato Carlo Alberto con una certa benevolenza — fa rilevare Viarengo — «nonostante qualche più o meno conscia riserva dovuta al fatto che la sua educazione “giacobina” (da parte della madre, delle cui passate simpatie per la rivoluzione si era spesso parlato) non l’avesse messo in condizione di introiettare sin dai più teneri anni lo “stile” dei Savoia». Ma, dopo quel che accadde nella primavera del 1821, Carlo Alberto, agli occhi di Carlo Felice, scrive Viarengo, «rimase a lungo un traditore, per sempre un personaggio poco affidabile e ancor meno comprensibile».
In ogni caso due anni dopo, alla fine di aprile del 1823, Carlo Felice chiese al principe di Carignano, come prova del suo ravvedimento, di partecipare con le truppe francesi alla repressione dei costituzionalisti spagnoli anche per «comprometterlo con il mondo cospirativo». A favore dei costituzionalisti combattevano infatti molti profughi piemontesi e liguri reduci dai moti del 1820-21, guidati da un ex capitano della brigata Alessandria, Giuseppe Pacchiarotti; Carlo Alberto era consapevole del fatto che avrebbe rotto con questo mondo, ma capì che era la sua grande occasione, si impegnò in quell’impresa militare e, a fine agosto, si distinse nell’assalto a una delle fortificazioni di Cadice, il Trocadero. Da quel momento per la stampa francese e per quella sabauda Carlo Alberto fu «l’eroe del Trocadero»: si era guadagnato sul campo di battaglia — assieme alla diffidenza dei rivoluzionari — l’opportunità di essere riammesso alla corte di Torino, dove poté rientrare, il 7 febbraio 1824, per la prima volta dopo tre anni. Per essere, però, immediatamente confinato nel castello di Racconigi, a debita distanza dalla corte stessa, ma anche dalla borghesia torinese ancora sospettata di essersi fatta parzialmente coinvolgere dai cospiratori del 1821.
E fu a Racconigi che Vittorio Emanuele crebbe, istruito dall’abate Charvaz, futuro vescovo di Pinerolo. Che lo tenne lontano dai libri del suo tempo, ciò che gli impedì, scrive Adriano Viarengo, «di calarsi, come i suoi coetanei, aristocratici o borghesi che fossero, nella cultura romantica imperante nella prima metà dell’Ottocento italiano, di appartenere così a una koiné generazionale nutrita di valori morali ed estetici comuni; in altri termini il futuro sovrano rimase largamente estraneo a quel “canone” che ha formato — almeno in parte — la base culturale risorgimentale».
Passano pochi anni ed eccoci nel 1831 a un nuovo colpo di mano. Stavolta i rivoltosi, autoproclamatisi «Cavalieri della Libertà», cercano di entrare nelle stanze del re Carlo Felice, gravemente ammalato, e di ottenere che firmi una Costituzione. L’ingenuo complotto è facilmente sventato. Ma uno dei cospiratori, Angelo Brofferio, si presta ad un’operazione assai ingegnosa: afferma che i congiurati miravano non a Carlo Felice, bensì all’erede Carlo Alberto. Il quale, grazie a Brofferio, ottenne «sul campo» i titoli per rassicurare l’establishment torinese in vista della successione. Carlo Felice muore di lì a qualche giorno e Carlo Alberto diventa re di Sardegna in quel delicatissimo frangente.
Viarengo nota come curiosamente le biografie del «re che fece l’Italia» sono sempre state assai sommarie in merito a questo antefatto. Tutte le biografie: da quella data alle stampe a ridosso della sua morte nel 1878, La vita e il regno di Vittorio Emanuele II primo re d’Italia di Giuseppe Massari (Fratelli Treves), a quella di Vittorio Bersezio in 8 volumi, dei quali però solo 4 dedicati in senso stretto al sovrano, Il regno di Vittorio Emanuele II. Trent’anni di vita italiana (Roux e Favale). Biografie che si dividono in due filoni: quello simpatizzante, di cui è capofila il Vittorio Emanuele II di Francesco Cognasso (Utet), e quello critico, inaugurato dal Vittorio Emanuele II di Denis Mack Smith (Laterza). Pagine interessanti dedicate a quello che fu definito il «re galantuomo» si trovano in Vittorio Emanuele II. Il re, l’uomo, l’epoca di Gianfranco E. De Paoli (Mursia), in Vittorio Emanuele II. Il re avventuriero di Paolo Pinto (Mondadori), in L’ombra del re. Vittorio Emanuele II e le politiche di corte di Pierangelo Gentile (Carocci). E soprattutto in volumi non dedicati espressamente alla sua persona: Cavour e il suo tempo di Rosario Romeo (Laterza) e I Savoia. I secoli d’oro di una dinastia europea, a cura di Walter Barberis (Einaudi).
Quando, nel 1849, Carlo Alberto è costretto ad abdicare, la corte di Vienna, come si è detto, investe su Vittorio Emanuele II. Perché ritiene che il giovane sovrano abbia metabolizzato le esperienze di vita del padre. Ma c’è dell’altro. Era genero, Vittorio Emanuele, del viceré del Lombardo Veneto, sposo di un’arciduchessa austriaca, nipote del granduca di Toscana, anch’egli un Asburgo, Radetzky aveva assistito al suo matrimonio, ricorda più volte Viarengo. Si sapeva poi «che il giovane non aveva simpatia né per le costituzioni, né per quella Camera dominata dai liberaldemocratici ai quali, secondo lui, il padre aveva dato troppa corda». Era facile immaginare, prosegue Viarengo, «che detestasse il governo repubblicano francese come le analoghe repubbliche italiane: dunque perché spingerlo fra le braccia di Parigi?». Tutto, insomma, «convergeva nell’indurre l’anziano feldmaresciallo a non esagerare nelle richieste» di riparazione dal regno di Sardegna; «a non delegittimare in partenza Vittorio Emanuele». Per questo Radetzky lasciò che prendesse piede la «leggenda di Vignale» che entrò persino nei libri di storia. Finché uno studioso americano, Howard McGaw Smyth, sulla base di un’ampia documentazione di parte austriaca, scoprì che si trattava, appunto di quella che definì «Legend of a Liberal King».
«L’esagerazione o, meglio, l’invenzione dei fatti della storiografia sabaudista», mette in risalto Viarengo, «finì però per con l’essere controproducente, poiché offrì un facile destro a quella parte degli storici più avversi alla monarchia sabauda e a Vittorio Emanuele di far passare in secondo piano il sostanziale miglioramento delle condizioni di armistizio che egli pur ottenne, magari più per concorso di circostanze che per abilità proprie». Verissimo. Ma gli consentì di avere, al cospetto dell’opinione pubblica europea e dei suoi sudditi, quel rispetto che lo avrebbe reso meno insicuro, meno velleitario e ondeggiante tra aperture e chiusure alle novità politiche di quanto fosse stato il padre. Un padre, Carlo Alberto, che aveva concesso la Costituzione e su cui proprio in quegli stessi frangenti fu costruito il mito del «re magnanimo», martire della libertà d’Italia, che, scrive Viarengo, «sarà intensamente coltivato dai deputati della Sinistra parlamentare, nella quale si era concentrato l’indirizzo liberaldemocratico, e, usato inizialmente per contrapporne la figura a quella del figlio, finirà anch’esso per diventare parte dell’agiografia risorgimentale».
Ma di questa agiografia Vittorio Emanuele seppe approfittare per mostrarsi più capace di quanto fosse stato Carlo Alberto di scegliere tra i politici di alto livello che (primo tra tutti Cavour, che pure il re amò poco) la storia gli mise a disposizione. Più abile nel destreggiarsi tra loro, nell’approfittare delle loro rivalità. E di avere così un ruolo decisivo nel complicatissimo processo che portò, nel 1861, all’unificazione dell’Italia.