23 LUGLIO 2021 /27 MARZO
Museo del Novecento Milano
Celebrare la «dimessa grandiosità» del fascista Sironi (che il partigiano Rodari non volle «cancellare»)
Alessandro Trocino
Newletter del Corriere della Sera
Avesse davvero attecchito anche da noi la gramigna della cancel culture, questa mostra non si sarebbe potuta fare. Di Mario Sironi non ci sono statue personali da abbattere, ma volendo esercitarci con corde e martello, ci sono molti luoghi pubblici dove divellere e demolire: il bassorilievo del Palazzo dell’Informazione di piazza Cavour a Milano, il mosaico al palazzo di giustizia di Milano, il grande murale dell’Aula Magna della Sapienza di Roma e molti altri. Si potrebbe infierire, dare alle fiamme le sue opere e, tra gli applausi della folla, srotolare uno striscione: «Mario Sironi fascista, amico di Mussolini».
Per fortuna non viviamo tempi così cupi e Milano celebra «la grandezza dell’arte e la tragedia della storia», per dirla con Elena Pontiggia, biografa di Sironi e curatrice insieme a Anna Maria Montaldo della splendida mostra «Mario Sironi, sintesi e grandiosità», al Museo del Novecento fino al 22 marzo 2022. Una mostra fondamentale perché, se è vero che possiamo permetterci ancora una certa complessità culturale, è anche vero che Sironi è stato emarginato e, di fatto, cancellato per decenni. Il suo lavoro è stata «una lezione di tragedia», disse Gianni Rodari, che lo salvò.
È il 25 aprile del 1945 quando Sironi esce dalla sua casa di via Domenichino, a Milano, e con il suo cane, tra gli spari, prende la via per Como. Viene fermato da un commando di partigiani. Tra loro c’è Rodari che lo descriverà come «un signore ambiguo, tutto grigio, con quel cane e un sorriso disperato». Il commando ha già passato per le armi John Emery, figlio di un ministro inglese e addetto alla propaganda nazista. Ma Rodari legge la carta d’identità: «Sironi Mario? Il pittore delle periferie? “Non so se posso vantarmene”. Gli firmai il lasciapassare, in nome dell’arte. Non dissi al comandante della brigata quelle tali cosette. Se ne andò con il suo cane, non importa dove. Aveva perduto qualcuno, non mi interessava chi. Per me la sua pittura era stata una lezione di tragedia. Non c’è pittore che valga i suoi quadri».
La sua salvezza fisica, «in nome dell’arte», fu però l’inizio di un lungo oblìo. Lui continua a dipingere, sempre in disparte e la sua arte ha un cambiamento radicale, come spiega Pontiggia: «Nella sua stagione novecentista aveva rappresentato un’immagine dell’uomo grave ma potente; una famiglia di architetti, costruttori, lavoratori dediti a un compito faticoso, ma solenne; una geografia di città dolorose, ma imponenti, animate da una dimessa grandiosità. Invece, dalla metà degli anni Quaranta dipinge uomini murati dalla pietra, sipari di rocce impenetrabili, sagome immobilizzate. Al volitivo “tu devi”, l’imperativo categorico cui obbedivano le figure precedenti, si sostituisce un amaro “tu non puoi”».
Sironi scompare, viene messo ai margini del mondo dell’arte per «quelle tali cosette» di cui parlava Rodari. Lionello Venturi descrive il Novecento — il movimento artistico propiziato da Margherita Sarfatti — come arte e retorica di Stato: «Ogni dittatura ha bisogno di un’arte neoclassica per generare la falsa retorica necessaria a ogni tirannia. Insomma, scrive Pontiggia, «l’ideale classico viene frainteso e combattuto e l’impropria equazione tra classicismo, mito della romanità e fascismo fa sì che la condanna della dittatura coinvolga molto di più Sironi e il movimento sarfattiano che altri artisti, fascisti ma non classicisti, come Terragni e Rosai».
Il conformismo del mondo dell’arte massacra Sironi. Cesare Brandi parla di arte manipolatoria, «che non merita neanche di essere presa a bersaglio». Giulio Carlo Argan accenna al Novecento come a «un movimento estraneo all’arte europea». Roberto Longhi scrive nel 1951: «Sironi: non credo al peso storico di questa figura, soprattutto al suo ultimo periodo» Lontano dal potere ufficiale, c’è qualche isolato sostegno critico, da Vanni Scheiwiller a Giò Ponti, fino a Curzio Malaparte, che dice di lui: «In un mondo di canaglie e di imbecilli, è cosa rara incontrare un Mario Sironi». A difenderlo ci prova Dino Campini: «Chi parla di arte di regime per lui non ha capito nulla». E questo è il nodo più difficile da sciogliere. Sironi aderisce al fascismo, sull’onda lunga dello sdegno per la d’annunziana «vittoria mutilata». Poi diventa disegnatore ufficiale del Popolo d’Italia, «dà forma d’arte all’azione e alla dottrina fascista». Il suo classicismo nel rappresentare il fascismo, diventa espressionismo grottesco e caricaturale per disegnare i nemici. Non disegna quasi mai fasci littori né il volto di Mussolini e il suo fascismo non è mai piaggeria, non è mai il longanesiano «Mussolini ha sempre ragione». Ma è fascismo, senza pentimenti, senza abiure.
È arte di regime quella di Sironi? E cos’è arte di regime? Mussolini scrisse: «È lungi da me incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di Stato. L’arte rientra nella sfera dell’individuo. Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale». Parole illuminate se non fosse che sono lontane anni luce dalla pratica di un regime totalitario che usava il pugno duro anche e soprattutto con gli intellettuali e gli artisti non allineati. Ma è vero che, scrive Pontiggia, Novecento non si tradurrà mai in un’arte di Stato. Per Sironi, che non otterrà mai incarichi speciali, onorificenze e certo non si arricchirà, l’arte è una sorta di «dovere morale, nato dal sogno idealista di promuovere l’arte della nuova Italia. La sua vicinanza a Mussolini è soprattutto data dalla convinzione che il regime saprà riaffermare il valore dell’arte italiana».
La sua adesione al fascismo sarà sempre in nome dell’arte, senza mai aderire alle campagne antisemite, e con molti nemici anche all’interno del regime, a cominciare da Roberto Farinacci, che lo metterà in ridicolo su «Regime fascista». Ugo Ojetti scrisse che Mussolini non amava le “manone” e i “piedoni” sironiani e avrebbe detto: «Sironi è un imbecille». Mussolini in realtà apprezzava Sironi ed è probabile che il giudizio tranchant fosse dello stesso Ojetti. Ci vorrebbe, scrive Pontiggia, «un grande scrittore o un maestro di psicologia per descrivere la personalità di Sironi». Aderì alla Rivoluzione fascista, ma «una sorta di radicale disincanto lo trattenne dal credere alle magnifiche e progressive sorti dell’uomo e del mondo, nonostante la fede (mai rinnegata) in Mussolini. La sua narrazione è troppo drammatica per servire alla propaganda. E la sua adesione al fascismo non si è mai tradotta in quella insopportabile piaggeria professata da tanti durante il Ventennio, non esclusi vari antifascisti dell’ultima ora». Come dimostrano queste parole scritte da Mussolini in una lettera: «Venne da me, un giorno, Mario Sironi. E mi disse, egli uomo castigatissimo, alieno da qualsiasi espressione grossolana, che la scultura e la pittura, volute dai politici in posa, stavano riempiendo di merda l’Italia, di fantocci le piazze, di maschere le strade consolari. Parlò fuori dai denti».
Ridare a Sironi quello che è dell’arte, non vuol dire riabilitarne le convinzioni politiche. Come ammette Pontiggia: «Si può accusare Sironi di aver dipinto una patria eroica e un uomo nuovo (utopia ricorrente di tutto il Novecento) che non esistevano e non sono mai esistiti, come la storia avrebbe tragicamente dimostrato pochi anni dopo. Non è una piccola parte di tragedia, nella più generale tragedia dell’Italia, che uno dei maggiori artisti del secolo abbia legato il suo genio a una tale illusione». Ma nello stesso tempo sarebbe ingiusto, e lo è stato per molti anni, «appiattire, come ha fatto tanta critica, la sua figura e la sua opera esclusivamente sul legame con il fascismo». Come scrive Claudio Strinati su Repubblica: «I tempi sono maturi per un vero e appassionato riesame di Sironi».
Gli ultimi anni di vita furono duri per Sironi. Subisce due violenti pestaggi. La figlia diciottenne si suicida. Dipinge cimiteri, cripte, apocalissi. Un suo quadro del 1958 si chiama Debout les morts (in piedi i morti), ma nessuno si rialza.
«La pittura lo bruciava, lo inceneriva, lo massacrava e lo faceva vivere», scrive Raffaele Carrieri. E la sua vita da anacoreta somiglia a un autoesilio, una punizione che si infligge per la sua vita tragica. A un amico scrive: «Di me non so dire nulla. C’è un mucchietto di rifiuti qui davanti, nell’orto, e mi sembra la mia vita, il mio cuore, le mie speranze». Muore il 13 agosto 1961, ricoverato alla clinica Madonnina: «Il breve corteo funebre attraversa una Milano deserta, metafisica, che sembra uscita da un suo quadro».
MARIO SIRONI. Sintesi e grandiosità
23 LUGLIO 2021 /27 MARZO
Museo del Novecento Milano
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MAR 10:00 – 19:30
MER 10:00 – 19:30
GIO 10:00 – 22:30
VEN 10:00 – 19:30
SAB 10:00 – 19:30
DOM 10:00 – 19:30
BIGLIETTO INTERO € 10,00
BIGLIETTO RIDOTTO € 8,00
Tel +39 02 88444061
Mail c.museo900@comune.milano.it
Website https://www.museodelnovecento.org/
L’Italia tra le Arti e la Scienza
1935 Aula Magna La Sapienza Università di Roma