IL LEADER ASSASSINATO DA SICARI FASCISTI GODEVA DI UN FORTE PRESTIGIO ALL’ESTERO
Il primo libro uscito in occasione dei cento anni dall’assassinio di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924) è stato quello di Marzio Breda e Stefano Caretti, Il nemico di Mussolini. Storia di un eroe dimenticato (Solferino), di cui si è esaurientemente occupato, sulle pagine del Corriere della Sera, Emanuele Trevi il 17 febbraio.
Un secondo volume dedicato al leader riformista sarà quello di Mirko Grasso L’oppositore. Matteotti contro il fascismo, pubblicato da Carocci. Non si concentra, Grasso, sull’uccisione del parlamentare socialista, su cui è stato scritto sostanzialmente tutto da Mauro Canali in Il delitto Matteotti (il Mulino). Bensì sul suo intero itinerario politico e culturale. Con una particolare attenzione per l’anno che precedette la sua morte per mano fascista. O, meglio, un anno e mezzo: il 1923 e metà del 1924.
Lo stesso Matteotti stava scrivendo un saggio su quel fatidico anno. Che verrà dato alle stampe nel 1924 a Bruxelles, Londra e Berlino. Di quel libro c’è traccia in una lettera che Filippo Turati scrive ad Anna Kuliscioff il giorno dopo la scomparsa del parlamentare socialista (il cadavere verrà trovato più tardi): «Ieri aveva detto che tornava a casa presto per lavorare», scriveva il leader socialista parlando di Matteotti, «doveva tra l’altro correggere le bozze dell’edizione ampliata del suo Un anno di dominazione fascista». Frutto di una ricerca per cui aveva chiesto più volte l’aiuto dello stesso Turati.
In realtà tracce di quel lavoro si possono trovare, secondo Grasso, già alla fine del 1922 quando, in un breve articolo per un giornale novarese, Matteotti aveva richiamato a una maggiore disciplina alcuni compagni di partito che, poco dopo la presa del potere da parte di Benito Mussolini, «violando deliberazioni assunte in sede assembleare», si erano «abbandonati al più allegro carnevale di interviste, di esibizioni magari alla ricerca di nuovi partiti».
La nomina a segretario del Psu — è stato fatto notare da tutti gli studiosi che si sono occupati di lui e in modo particolare da Gianpaolo Romanato, in Vita di Giacomo Matteotti. Un italiano diverso (che sta per essere ripubblicato da Bompiani) — coincise con l’arrivo al potere del fascismo. Per Matteotti furono venti mesi di acuta sofferenza. Forse fu l’unico a capire immediatamente che cosa stesse accadendo mentre gli altri, l’intera sinistra, si baloccavano con formule irrealistiche. Canali ha osservato che «si trovò ad essere il segretario assai isolato di un partito già assai isolato di per sé nella propria area politica di sinistra».
Quali furono le prime impressioni che Matteotti ebbe del Partito socialista unitario di cui era stato chiamato alla guida? Terribili. Confidò a Filippo Turati che il partito gli appariva come un «troiaio» e che troppi si lasciavano lusingare dalle blandizie di un Mussolini intenzionato a «sgretolare l’ultima forza ideale che ci resta». Noi, proseguiva Matteotti, «non siamo né abbastanza disonesti, né abbastanza ingenui per aderirvi». Ci sono tre lettere da lui scritte a Turati nei primi mesi del 1924 che, secondo Romanato, rivelano «tutta la solitudine, i tradimenti, le viltà» che contribuirono a creare il clima che rese possibile il suo assassinio. Il partito, scriveva, «muore di inazione». I suoi dirigenti gli apparivano «leoni del buon tempo andato, ora tutti presi dalla gotta». Se si interessano a qualche cosa, «si occupano delle preferenze e nulla di più». In quel 1922 — diceva — essi «sono dei pesi morti che non dobbiamo più trascinare». Dirigere «un esercito che continua a scappare è ridicolo». Ognuno «fa quello che vuole, cioè fa nulla». Il Psu «è afflitto da gente che vi è arrivata in altri tempi e per tutt’altri modi». Quanto a me, scriveva, «perdo tutto il mio tempo a sollecitare gente che non si muove mentre più potrei fare muovendomi da solo».
A Turati scriveva di esser deciso («e spero che, subito dopo le elezioni, mi vorrete aiutare») a «liberarsi da un incarico che doveva essere provvisorio per due mesi e si è invece prolungato per oltre un anno». Questo perché gli appariva «necessario» prendere, rispetto alla dittatura fascista, «un atteggiamento diverso da quello tenuto fin qui». La «nostra resistenza al regime dell’arbitrio deve essere più decisa; non cedere su nessun punto; non abbandonare nessuna posizione». Fu uno dei pochi ad avere le idee chiarissime. Nessuno «può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di legalità e libertà … tutto ciò che esso ottiene lo spinge a nuovi arbitrii, a nuovi soprusi».
Si poteva guardare, sia pure esclusivamente per coerenza con le idee esposte a Turati, ai socialisti del Psi. I «massimalisti» apparivano però a Matteotti «in condizioni forse peggiori delle nostre». Unirsi con loro «è cosa poco simpatica», «sono ancora più piccoli uomini». Ma il realismo lo induceva a considerare che forse l’unione con loro poteva «dare un nuovo spirito alle masse, le quali altrimenti o si appartano o vanno al comunismo se non anco qualcuno al fascismo». Quanto ai comunisti, li considerava «complici involontari del fascismo». Una chiamata di correo, scrive Romanato, che «i comunisti non gli perdoneranno mai cancellandolo non solo dalla loro storia ma dalla storia della sinistra italiana». Verso il «partito dei bolscevichi», Matteotti — che non a caso non andò mai nella capitale dell’Urss e anzi ironizzava sui «pellegrini di Mosca», cioè i «socialisti folgorati sulla via del leninismo» — fu, scrive Romanato, «quasi sprezzante».
Le elezioni del 6 aprile 1924, scrive Massimo L. Salvadori in L’antifascista. Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio cent’anni dopo (1924-2024), pubblicato da Donzelli, costituirono per lui «pur nella disperazione causata dalla travolgente vittoria ottenuta dai fascisti nonché dai loro vari sostenitori e alleati» un motivo di soddisfazione»: il suo partito risultò il primo della «sinistra lacerata» con 24 eletti a fronte dei 22 del Psi e dei 19 del Partito comunista. Il 15 aprile la direzione comunista rivolse ai massimalisti del Psi e ai socialisti unitari la proposta di tenere una manifestazione congiunta per il Primo Maggio. Matteotti rispose con parole che Salvadori definisce «molto pesanti». Voi, li accusò, «siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza delle minoranze; noi siamo socialisti e per il metodo democratico delle libere maggioranze». Non c’è quindi «nulla di comune tra voi e noi». Voi stessi, proseguì, «ogni giorno ci accusate di tradimento contro il proletariato… Se siete quindi in buona fede, è malvagia da parte vostra la proposta di unirvi coi traditori; se siete in mala fede, noi non intendiamo prestarci ai trucchi di nessuno».
Già nel corso della campagna elettorale, Matteotti aveva dato prova di grande coraggio. Dirà di lui Carlo Rosselli: «Solo a un temperamento del suo stampo poteva lvenire in mente di scendere in piazza Colonna con un pentolino di colla ad appiccicare sotto il naso dei fascisti i manifesti elettorali che erano stati tutti stracciati». Lo psicoanalista Cesare Musatti ricordava di averlo incontrato a Padova, poco prima delle elezioni del 1924, sorprendentemente predisposto ad un «contraddittorio» con un gruppo di fascisti assai malintenzionati nei suoi confronti. Alla sera l’aveva ritrovato a Venezia a casa di suo padre e gli aveva raccontato che i fascisti, una volta che l’ebbero riconosciuto, l’avevano rincorso fino alla stazione dove lui, camminando tra i binari, era riuscito «a saltare su un treno locale».
Il 30 maggio Matteotti, pronunciò, all’apertura del Parlamento, il celebre discorso contro il clima di violenza in cui si erano tenute le elezioni e i brogli che le avevano contraddistinte. Il presidente della Camera, Alfredo Rocco, gli intimò di parlare «prudentemente». Il leader del Psu gli rispose: «Io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente!». Dopodiché fu durissimo. E, oltremodo, circostanziato. Ha scritto — in Marcia su Roma e dintorni (Einaudi) — Emilio Lussu, presente alla Camera quando Matteotti pronunciò quelle parole di denuncia, che, quando tornò al suo posto, il parlamentare socialista disse «scherzosamente» ai compagni di partito: «Io, il mio discorso l’ho fatto; ora voi preparate il discorso funebre per me».
Quando fu ucciso, i comunisti furono poco generosi nei suoi confronti. Antonio Gramsci, subito dopo la sua morte, lo definì «pellegrino del nulla». Un «combattente sfortunato», gli concesse, «ma tenace fino al sacrificio di sé». Che aveva vanamente immolato la vita «a un inutile circolo vizioso di lotte, di agitazioni, di sacrifici senza risultato e senza vie di uscita». Piero Gobetti scrisse invece che «fu forse il solo socialista italiano per il quale riformismo non fosse sinonimo di opportunismo». Papa Pio XI aveva, secondo Romanato, un tale terrore della possibile partecipazione delle sinistre al governo che, dopo il rapimento di Matteotti e prima del ritrovamento della salma, «rifiutò di ricevere la moglie e la mamma del deputato entrambe notoriamente devote cattoliche». Le «dirottò sul segretario di Stato cardinal Gasparri, per non correre il rischio che l’udienza potesse essere interpretata come un suo sbilanciamento a favore delle opposizioni».
Grasso dedica un particolare interesse al precoce «europeismo» di Matteotti. Nel marzo del 1924 (poche settimane prima della sua uccisione) gli viene negato il passaporto ma lui espatria clandestinamente per presenziare, dopo una sosta a Parigi, ai congressi socialisti di Marsiglia e Lille. Poi va a Bruxelles per il congresso belga. Il 24 aprile è a Londra dove, tra i laburisti, è in corso la preparazione per la campagna in vista delle elezioni di ottobre (vinceranno i conservatori). Qui ha un rapporto molto proficuo con due dirigenti di primo piano del Labour Party: Arthur Henderson e William Gillies. Con il giornalista del «Daily Herald», William Norman Ewer, studia l’ipotesi di uffici di corrispondenza in comune con il suo giornale «La Giustizia».
Lascia una traccia che resterà ben individuabile anche dopo la morte, come si evince dagli studi di Anna Rita Gabellone — Giacomo Matteotti in Gran Bretagna (19241939), edito da Franco Angeli — e di Alice Gussoni — Salvemini a Londra. Un antifascista in esilio (1925-1934), editore Donzelli — che hanno messo in evidenza l’impronta matteottiana sull’attività degli esuli nel mondo anglosassone assai diversa da quella parigina. Il pensiero di Matteotti sull’Europa, scrive Grasso, «non si concentra sulla costruzione teorica del sistema sovranazionale», ma «cerca di riempire il concetto di unità europea di contenuti e basi concrete per le fondamenta della sua nascita».
Nel corso di questi viaggi della primavera del 1924 (già da molto prima, in realtà) gli è di grande aiuto la moglie, Velia Titta, un’intellettuale coltissima e poliglotta. Le lettere che si scrivono — in aggiunta a Lettere a Velia (Pisa University Press) curato da Stefano Caretti — meriterebbero un ulteriore approfondimento. Sarà anche per l’intensità del loro rapporto che, in seguito all’assassinio del marito, il regime fascista ritenne di esercitare sulla vedova un rigido controllo — scrive Alberto Vacca in L’occhio del duce in casa Matteotti. La spia dell’Ovra Domenico De Ritis (Edup) — per impedirle di svolgere qualsiasi attività politica e di espatriare all’estero con i figli minori. Fino al gennaio del 1930 l’attività spionistica fu svolta da una signora svizzera, Louise Genschow, insegnante privata di francese per i ragazzi. Dal febbraio 1930 al 1943, dal ragioniere Domenico De Ritis, «vecchio amico di famiglia». Fino al 1931, documenta Vacca, la vedova conserva un atteggiamento più che intransigente nei confronti del regime «mantenendo i contatti con i vecchi amici del marito e coltivando l’idea di trasferirsi all’estero». In seguito, grazie alla subdola azione» di De Ritis, Mussolini riesce a instaurare con Velia Titta un dialogo — di cui lei però è poco consapevole — inducendola ad accettare un aiuto finanziario. Nonostante gli sforzi profusi nell’«opera persuasiva», De Ritis non riesce a convincere vedova e figli della bontà del regime fascista. Ma questo, scrive Vacca, non preoccupa la polizia politica, «perché l’obiettivo che essa persegue e consegue è la loro neutralizzazione politica». A nessuno interessa una «loro intima adesione al regime». Quell’adesione in ogni caso — da quel che si desume dalla ricca documentazione prodotta da Vacca — il regime non la ottenne e non l’avrebbe ottenuta in nessuna circostanza.
Paolo Mieli Corriere della Sera 26 febbraio 2024