di Giovanna Lori.
Per metamorfosi, sostantivo femminile di origine greca, si intende la trasformazione di un essere o di un oggetto in un altro essere, in un altro oggetto.
Le metamorfosi hanno avuto una particolare importanza nell’antica religione greca. La trasformazione poteva essere temporanea ( come quella di Zeus in toro, in cigno, in pioggia d’oro, vari aspetti sotto cui questa divinità si univa a donne mortali ) o definitiva come quella di Dafne in alloro, di Narciso nel fiore di questo nome, di Niobe in roccia, di Aracne in ragno, di Licaone in lupo. Queste ultime trasformazioni potevano rappresentare una punizione o un premio da parte della divinità, mentre nel primo caso corrispondevano in sostanza a varie ipostasi, ossia a varie manifestazioni di un’unica realtà divina: tale carattere hanno le metamorfosi delle divinità induiste.
Nel folclore favolistico sono molto frequenti le metamorfosi di esseri umani in animali, o anche in vegetali: esse possono essere l’ effetto di un maleficio, o la punizione per l’infrazione di un divieto, e in molti casi chi ne è vittima finisce per riacquistare l’aspetto primitivo. Altro motivo favolistico di origine assai antica è quello di un essere malefico che si trasforma incautamente, su invito dell’eroe, in un piccolo animale, in un piccolo oggetto che l’eroe stesso distrugge prontamente. I miti comportanti metamorfosi, anche per le grandi possibilità descrittive che offrono, furono presto temi di opere letterarie.
Celebri sono, appunto, le Metamorfosi ( Metamorphoseon, libri XV ), poema epico-mitologico in esametri dattilici in quindici libri, di Ovidio, poeta latino (43 a.C.- 18 d.C. ).
Sulla scorta dei canoni della poesia alessandrina sono narrate circa duecentocinquanta leggende greche e romane, collegate tra loro da vincoli tenui, ora di sostanza, ora di forma, ed esposte in un ordine approssimativamente cronologico, che va dalle mitiche origini del mondo, all’assunzione di Cesare fra gli astri, all’apoteosi di Augusto. Sotto l’influsso dottrinale di Pitagora e di Eraclito, la vasta materia, derivata soprattutto da poeti ellenistici come Callimaco, Nicandro, Partenio e da poeti latini quali Cinna, Licinio Calvo, Catullo, comprende per lo più trasformazioni di uomini in pietra, in alberi, in animali e in acqua, come erano state immaginate in epoca remota con fantasia fresca e viva quali manifestazioni di un mondo della natura sentito come un meraviglioso insieme di esseri animati.
Ricordiamo anche le “ Metamorfosi “ ( Metamorphoseon, libri XI ), romanzo di Apuleio da Madaura ( II sec. d.C. ), noto già nell’antichità con il titolo di “ Asino d’oro “.
Risalente a tempi ben più recenti ( 1916 ), citiamo “La Metamorfosi“ ( Die Verwandlung ), racconto di Franz Kafka in cui si narra di un commesso viaggiatore, Gregor Samsa, il quale una mattina si trova trasformato in un grosso coleottero, ma conserva intelletto e sensibilità di uomo. Per nascondersi ai familiari inorriditi, si riduce a vivere sotto il tetto, nutrendosi di rifiuti, assistito da una sorella, da lui particolarmente amata, poi soltanto da una vecchia serva e, quando muore perché il padre esasperato gli ha tirato una mela che gli ha rotto la corazza di insetto, la serva commiserandolo lo butta nella spazzatura. La vicenda, narrata con estremo e minuzioso realismo, al di fuori dello spazio e del tempo, sottintende un discorso e un senso più profondo, come quello dell’alienazione e dell’angoscia esistenziale.
Ma cosa c’entra tutto questo con il Risorgimento e conla Maremma? Qualcosa c’entra visto che, quando ho cominciato a villeggiare nei primi anni dello scorso decennio a Prata, un piccolo paese medioevale, frazione di Massa Marittima in provincia di Grosseto, subito notai due lapidi, dedicate l’una a Giuseppe Mazzini e l’altra a Giuseppe Garibaldi, fissate sui pilastri centrali che reggono le arcate della Fonte pubblica. Ne lessi allora con interesse il testo, rimanendone affascinata e, di tanto in tanto, quando passo, ancora oggi lo rileggo; sono nate in me delle riflessioni che vorrei far conoscere. Ma procediamo con ordine. Fra le opere pubbliche più importanti di Prata deve essere, appunto, ricordata la monumentale Fonte, grandiosa costruzione a tre arcate, tutta in travertino, edificata nell’anno 1886; prima di questa data la popolazione doveva recarsi alla Fontevecchia nel fosso del Canale, distante più di mezzo chilometro.La Fontefu costruita per far giungere in paese l’acqua di Canalecchia, ottima e freschissima, alla quale da poco tempo è stata aggiunta quella della Fontevecchia. Sopra queste arcate è stata creata un’ampia terrazza, dalla quale si può ammirare il bel panorama dei monti di Prata. Sui due pilastri centrali che reggono le arcate, sono state fissate le due lapidi di marmo, da me citate poc’anzi, dedicate a Mazzini e a Garibaldi con le seguenti iscrizioni:
A Giuseppe Mazzini
la cui parola
fu arma di redenzione
nazionale
Prata-1899
A Giuseppe Garibaldi
la cui spada
fu canto di poema
umanitario
Prata-1899
Io, a suo tempo, come già ho scritto, fin dalla prima lettura, rimasi immediatamente colpita da quella “ parola “ che diventava “ arma “, da quella “ spada “ che diventava canto; mi affascinavano proprio queste trasformazioni, queste due metamorfosi dovute alla forza degli ideali propugnati dai due grandi esponenti del nostro Risorgimento.
Ma i pratigiani di fine Ottocento, evidentemente, non avevano il mio stesso modo di sentire. Quando, infatti, lessero il testo delle lapidi, seguendo la loro logica, non compresero la “ contrapposizione “ della “parola “ che si fa “ arma redentrice “ e dell’ arma “ che si “ canto epico “ e immaginarono un errore di trascrizione del compositore. Per cui fecero così correggere il testo:
A Giuseppe Mazzini
la cui parola fu canto
di poema umanitario
A Giuseppe Garibaldi
la cui spada fu arma
di redenzione nazionale
A questo punto, però, essendoci dei pareri discordanti fra gli abitanti di Prata relativamente al fatto se questa seconda versione, o la prima, fosse quella corretta, si decise che una persona incaricata interpellasse il compilatore delle due dediche in questione, Orazio Penucci, il quale, con una sua lettera del 26 giugno 1895, rispondendo al quesito, precisava: “ Pregiatissimo Signore, le epigrafi, di cui mi parla, furono commesse a me, mi pare dall’amico Felice Albani;ma io le feci ben diverse da quelle che ora mi ricompaiono dinanzi nella lettera di lei. Io le scrissi, bene o male, così: A Giuseppe Mazzini la cui parola fu arma di redenzione nazionale- A Giuseppe Garibaldi la cui spada fu canto di poema umanitario. In queste, come Ella vede, la parola si fa “ arma redentrice “, l’arma “ canto epico “. In quelle da Lei trascrittemi, la contrapposizione significativa sparisce e il Mazzini può uscirne contento, ma non G. Garibaldi, perché ciò che di lui di dice, può dirsi su per giù di qualunque semplice soldato delle patrie battaglie. Con saluti ed auguri a Lei e ai suoi colleghi del Comitato, godo dichiararmi dev.mo Orazio Pennucci “.
Dopo di ciò, le lapidi tornarono nella versione originale. Chi, passando, osserva oggi le epigrafi con particolare attenzione noterà, infatti, che la parte del marmo su cui le parole del testo originale sono state reintrodotte, è scalfita perché essa dovette essere scalpellata per cancellare la impropria correzione.
L’anno dell’affissione, che fu il 1899, è anch’esso, per l’appunto, a mio parere significativo ed emblematico: è una sorta di anello di congiunzione, sospeso com’è fra un secolo, il diciannovesimo, che ha visto il Risorgimento d’Italia, e l’altro, il ventesimo, il secolo breve, quello delle due guerre mondiali; è l’anno che, nello scorrere dei dodici mesi che lo compongono, accompagna l’Ottocento a diventare Novecento.
E le due parole “ canto “ e “ spada “, nella loro carica metamorfica incomprese dai più all’epoca dell’affissione delle lapidi e che invece avevano da subito, alla prima lettura, tanto affascinato me, restano lì scolpite, a sfidare il tempo, non statiche ma dinamiche come lo sono le trasformazioni simboliche nel loro perenne fluire.
Giovanna Lori