Il diverso approccio all’emergenza scava un fossato tra gli Stati occidentali, guidati da Berlino, e i membri dell’Est. L’influenza di Angela Merkel difficilmente farà breccia, ma bisogna porre i governi di fronte alle loro responsabilità
Franco Venturini Corriere della Sera 4 settembre
Dopo troppe vite perdute, il ciclone migranti che si è abbattuto sull’Europa ha finalmente prodotto proposte concrete. Sull’obbligatorietà delle quote di accoglienza in ogni Paese della Ue, sull’adozione di regole comuni per la concessione dell’asilo, sul conseguente superamento degli accordi di Dublino. L’iniziativa nasce formalmente da una intesa franco-tedesca, ma non è un mistero che in realtà sia stata Angela Merkel a prendere a bordo il presidente francese.
L’Italia, esclusa questa volta dalla formula tradizionale dell’asse Berlino-Parigi dopo il documento d’indirizzo sottoscritto il giorno prima dai tre ministri degli Esteri, può egualmente dirsi soddisfatta nel vedere recepite le sue richieste di mesi e di anni. Ora si aprirà in sede europea un dibattito che promette scintille e che non garantisce successi, ma i toni usati di nuovo ieri dalla cancelliera tedesca confermano che l’emergenza migranti ha regalato all’Europa una Merkel nuova di zecca.
Una Merkel che ha fretta, coraggiosa e disposta a rischiare in proprio, più solidale e meno rigida sul rispetto delle regole di quanto si fosse mai vistoin campo economico – finanziario. Alcuni dei motivi che stanno all’origine della svolta sono facilmente intuibili.
La Germania riceverà quest’anno 800 mila richieste d’asilo e ne ha già approvate negli anni scorsi più di chiunque altro in Europa, si capisce che pretenda una redistribuzione. Sospendendo per prima le clausole di Dublino a favore dei profughi siriani, inoltre, Berlino riconquista la sua credibilità morale messa a dura prova dalla linea intransigente nei confronti del dramma socio-finanziario greco. Aggiungiamo pure una questione di immagine personale, dopo che la cancelliera aveva incautamente fatto piangere in tv una bambina siriana. Tutto vero. Ma basta a spiegare la «nuova Merkel»? Crediamo di no. Crediamo piuttosto che Angela Merkel abbia fatto, grazie ai migranti, quel passo breve ma decisivo che distingue i politici dagli statisti. E che l’abbia fatto dopo essersi guardata intorno, dopo aver constatato che i flussi migratori avevano tutti i requisiti per distruggere una costruzione europea già traballante. Lo statista sa guardare oltre la linea dell’orizzonte quando, come nel caso in questione, è impossibile prevedere durata e ampiezza dell’insidia futura. E la Germania, pur con tutte le critiche che ha ricevuto e che in parte ha meritato, non è disposta a rinunciare all’Europa. Se gli altri vivono alla giornata, o attendono di essere guidati, Angela Merkel ha deciso che spettava a lei di combattere l’ardua battaglia contro l’implosione europea. Non è forse vero che in Francia il Front National deve gran parte della sua fortuna politica alle sortite anti immigrati?
E che dire dei conservatori britannici che sui migranti strizzano l’occhio agli xenofobi dell’Ukip, della neonazista Alba Dorata in Grecia, delle posizioni di Lega e Cinque Stelle in Italia, che fortunatamente dividono in due partiti diversi l’ostilità verso i migranti? L’elenco potrebbe continuare, e includere tutto quell’arcipelago politico in crescita che di solito passa sotto il nome di «populismo». Il 20 di questo mese si vota in Grecia, il 4 ottobre in Portogallo, il 25 in Polonia, a dicembre in Spagna, e poi toccherà agli altri: quale sarà l’«effetto immigrati» sulle urne, e quale sarebbe domani davanti a una totale impotenza europea? Il fenomeno dei flussi rischia fortemente di condizionare le elezioni, e dunque la democrazia, ovunque in Europa. Sarebbe un modo per ucciderla, l’Europa, e alla minaccia bisogna reagire. Non è vero che i migranti stanno scavando un fossato sempre più profondo tra l’Europa occidentale e i nuovi membri dell’Est? Non si tratta di una divisione inedita. Gli ex satelliti dell’Urss hanno priorità che talvolta coincidono con quelle di Londra ma non con quelle di Parigi, Berlino, Roma o Madrid. La minaccia sentita è quella russa, ci si intende meglio con Washington che con Bruxelles. Si contribuisce poco al salvagente greco. E ancor meno all’accoglienza dei migranti.
L’influenza della Merkel farà breccia? È assai dubbio. Ma è inevitabile porre i soci dell’Est davanti a responsabilità che non possono più essere eluse, e che sono l’altra faccia dei generosi aiuti ricevuti dalla Ue. Le prossime elezioni greche possono finire bene per gli altri europei (con un governo dei moderati) ma possono anche portare all’ingovernabilità di un Paese che ha già l’acqua alla gola, per le sue vicissitudini finanziarie e anche per il massiccio transito di migranti. E poi verrà quel momento cruciale per l’Europa che sarà il referendum britannico sull’appartenenza alla Ue, nel 2017 o forse già l’anno prossimo. Il premier Cameron riprenderà tra poco un difficile negoziato con i soci continentali, ma sulle richieste avanzate dai suoi ministri (fermare il flusso dei cittadini europei che vanno a cercare lavoro e protezione sociale in Gran Bretagna) non gli sarà facile ottenere concessioni significative. Piuttosto, quale effetto avranno sugli elettori le immagini dei migranti che occupano il tunnel sotto la Manica, o quelle dei diseredati che non lasciano Calais pur di cercare un modo per attraversare il Canale? La Germania vuole fortemente che Londra resti nella Ue, ma non può sacrificare la libera circolazione dei cittadini europei. E teme, soprattutto, che l’aumento della pressione migratoria possa rovesciare in senso negativo i sondaggi oggi ancora favorevoli alla permanenza in Europa. Occorre ricordare che in assenza di novità sostanziali Schengen morirebbe, che l’Europa è già martoriata dal conflitto in Ucraina, che il destino dell’Eurogruppo resta da decidere? Se la Merkel si è davvero guardata attorno come pensiamo, deve aver capito che senza nuove regole le migrazioni a questa Europa avrebbero dato un risolutivo colpo di maglio. E che bisognava rispondere da statista, pur sapendo che la sfida, sono parole sue, non sarebbe stata inferiore a quella della riunificazione tedesca. Un paragone che fa ben sperare.