Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera 10 dicembre 2021
Come addomesticare la morte, soprattutto quale senso dare ai massacri di massa? Durante ogni guerra i sopravvissuti si sono ritrovati a dovere fare i conti con queste domande fondamentali. In epoca moderna, però, proprio l’enorme numero di uccisi dalle armi sempre più letali, frutto delle nuove tecnologie belliche figlie della rivoluzione industriale, costrinse i responsabili degli Stati coinvolti a fornire risposte il più possibile esaustive e valide per il massimo numero di persone in lutto.
Fu così che, poco dopo la fine della Prima guerra mondiale, venne concepito il mito del Milite ignoto. Un grande monumento contenente la salma raccolta sui campi di battaglia di un soldato di cui era stato impossibile accertare l’identità. A Roma il 4 novembre 1921 si tenne «la più grande celebrazione patriottica dell’Italia unita, un “mare di popolo”, in religioso silenzio, si radunò in Piazza Venezia per seppellire le spoglie non identificabili di uno dei 650.000 soldati italiani morti», scrive Laura Wittman, docente all’Università di Stanford, che, prendendo spunto dall’epopea del Milite ignoto, propone in effetti un ricco contributo allo studio della fenomenologia della morte non solo un secolo fa, ma ai nostri tempi (Il Milite ignoto. Storia e mito, Hoepli, pp.280, € 20).
Il 17 novembre 2003 oltre 300 mila persone tornarono a radunarsi a Piazza Venezia per rendere omaggio ai diciannove italiani caduti a Nassiriya. Una «prova del fascino sempre attuale della Tomba del Milite ignoto»», che, nota l’autrice, riproponeva sia il tema della «risposta catartica» per il trauma dei soldati uccisi che quello mai sopito della strumentalizzazione politica del lutto. Individui, allo stesso tempo cittadini e componenti delle masse, si ritrovarono a riflettere su di un simbolo che rappresentava contemporaneamente il corpo umano e quello della nazione.
Targa in memoria dei caduti italiani a Nassiriya al Senato