Nella storia intellettuale e politica di Giorgio Napolitano, non tutti hanno compreso quanto sia stato rilevante il giudizio da lui maturato sul Risorgimento come cardine dell’identità nazionale. Non che il Pci non avesse una sua idea chiara del processo che portò all’unità e poi al contrastato sviluppo economico della seconda metà dell’Ottocento. Ma era un giudizio intriso di quel tipo di “ideologismo” che non piaceva al presidente emerito, il quale amava invece investigare la realtà senza mai prenderne le distanze.
È dunque merito del figlio Giulio aver toccato ieri questo punto cruciale. Lo ha fatto nel commosso intervento durante il funerale laico nell’aula di Montecitorio, in cui ha restituito tutta la dimensione politica e umana del padre. Non a caso ha citato le celebrazioni per i centocinquanta anni dell’Unità nel marzo 2011. Fu quello un passaggio essenziale nel disegno della presidenza ed è importante che sia rievocato oggi. Dopo Giulio Napolitano anche Giuliano Amato, allora presidente, nominato da Ciampi, del Comitato per le celebrazioni, ha affrontato il tema. Di certo non ci fu nulla di scontato e di banale in quei giorni: senza retorica, furono fissati alcuni punti fermi di quel “patriottismo” che intendeva affermare i valori dell’identità comune senza scivolare in forme di nazionalismo destinate in seguito, già verso la fine del secolo, a entrare con forza nel dibattito pubblico. Un “memento” preparato con cura a beneficio di un paese smemorato. E di forze politiche ormai preparate a vivere solo il presente, considerando il passato solo come occasione di propaganda.
Non era scontata la visita di Napolitano al Pantheon dove è sepolto tra gli altri Vittorio Emanuele II, il primo re dell’Italia unita. Ancor meno lo era l’omaggio reso sul Gianicolo all’effimera Repubblica Romana del 1849. Lì, sul colle dove infuriarono i combattimenti con le truppe francesi mandate a difendere il potere temporale dei papi, oggi sono incisi nella pietra tutti gli articoli della Costituzione promulgata dai mazziniani. Un testo di straordinaria modernità, non a caso ispirato alla Costituzione americana e presto cancellato dalla restaurazione pontificia. C’era nel presidente Napolitano il desiderio di riconnettere le fila della storia, di ritrovare radici nelle quali quasi ogni parte politica, a sinistra come a destra, potesse riconoscersi. Ha detto Giuliano Amato che il centocinquantenario è servito a superare l’annosa diatriba tra l’“altra Italia” sognata da Mazzini e l’“Italietta” costruita nel solco di Cavour dai suoi successori. Napolitano ha guardato con realismo (e di nuovo senza ideologia) all’Italia com’era e a come era in grado di svilupparsi.
Questo è vero, ma a patto di cogliere la maggiore novità contenuta nel discorso del 18 marzo 2011 davanti alle Camere riunite. Il discorso in cui culminavano le celebrazioni. Napolitano cita Rosario Romeo, il grande storico liberale del Risorgimento, per far sua l’idea cavouriana di una patria non rattrappita ma inclusiva nel contesto europeo. Non nega gli squilibri e i limiti della costruzione unitaria; tuttavia, è evidente che agli occhi del presidente che era stato un giovane comunista laureato in storia economica del Mezzogiorno, l’analisi di Romeo sembra più convincente di quella di Antonio Gramsci per quanto riguarda lo sviluppo industriale della neonata nazione.
Del resto, Romeo, non ancora trentenne, aveva confutato le tesi degli storici gramsciani a proposito della rivoluzione mancata nel Sud d’Italia. L’egemonia delle forze moderate aveva permesso uno straordinario avanzamento già negli ultimi decenni dell’Ottocento. Napolitano non rinnega Gramsci ma lo colloca un passo indietro rispetto all’analisi liberale di Romeo.
Stefano Folli La Repubblica 27 settembre 2023