Marzio Breda Corriere della sera 21 novembre
L’impegno del filosofo per la rinascita dell’Italia
Le sirene lacerano per l’ennesima volta la Napoli dei «cento bombardamenti», che faranno 22 mila vittime civili entro la fine del settembre 1943. Un ragazzo corre al ricovero antiaereo ricavato nelle viscere di uno storico edificio della città, palazzo Serra di Cassano, sul Monte Echia che domina il quartiere di Santa Lucia. Passerà «decine e decine di notti», nel rifugio di via Monte di Dio, torturandosi al pensiero delle distruzioni che devastano le strade, dei lutti, della fame e del freddo che avviliscono la gente. Non molto distante da lì, e schiacciato dall’incubo delle stesse bombe, un vecchio filosofo raccoglie i propri bagagli e li unisce a poche migliaia di volumi che può far portare con sé («una minima parte degli oltre 150 mila della sua biblioteca… e questa è per lui la trafittura più dolorosa»), prima di partire per Sorrento, terra di nessuno poi liberata.
Il giovane è Giorgio Napolitano, che giusto allora cominciava un lungo percorso politico passato anche «attraverso prove ed errori» – come ha ammesso di recente – ma che agli esordi lievitò soprattutto sotto la spinta «di un impulso morale e di una sensibilità sociale». Il filosofo è Benedetto Croce, una delle rare autorità intellettuali unanimemente riconosciute nel Paese, che nonostante i suoi 77 anni di allora reagisce allo sbandamento generale con «una profonda, straordinaria tensione emotiva ed etica», dimostrando «riserve insospettabili di energia e determinazione», tanto da diventare il «protagonista politico» di una stagione cruciale. Una stagione tragica, in quanto gravata dall’ansia sulle possibilità di cambiare la storia, della quale abbiamo molte testimonianze, anche letterarie (su tutte quella di Curzio Malaparte), che il presidente della Repubblica ha rievocato ieri in un denso intervento all’Istituto per gli studi storici di Napoli, a Palazzo Filomarino, chiudendo un omaggio a «don Benedetto» nel sessantesimo anniversario della sua scomparsa.
Una rievocazione a diversi livelli di lettura, se non altro perché vi si coglie un certo rispecchiamento, evidente in alcuni brani dei diari e taccuini crociani – rimasti a lungo sconosciuti -, che il capo dello Stato è parso citare ad hoc.
L’Italia sulla quale si concentra è quella «in condizioni gravissime e quasi disperate» tra il 25 luglio 1943 e la gestazione della Repubblica, nella quale il filosofo ebbe appunto un ruolo fondamentale. Un Paese che attraversa «un presente doloroso» e che Croce osserva da Villa Tritone, a Sorrento, alla cui porta bussano emissari delle nostre forze di liberazione e delle forze alleate per preparare il futuro. Il filosofo si assilla sulle scelte da compiere. Tiene a bada il proprio travaglio, gli scoramenti e i rimpianti imponendosi nonostante l’età di «ripigliare il lavoro…», perché «l’opera è tutto».
Ripete di sentirsi «uomo di studi, politico malgré moi» e in effetti trova sempre il tempo per lavorare sui testi dello storico ottocentesco Luigi Blanch, per limare bozze di libri e riviste o per riprendere in mano l’amato Goethe. Eppure, nonostante la dichiarata scarsa «attitudine alla politica» (una fatica, si sfoga, contraria al suo temperamento, alla sua capacità e a tutta la sua stessa vita) stavolta non punta i piedi. La coscienza gli impone di «non tirarsi indietro». Anzi, è «l’amor di patria» – «parola caduta in desuetudine per la giusta ripugnanza contro il nazionalismo», osserva Napolitano – a spingerlo all’azione. Scrive ad esempio al direttore dell’Office of Strategic Service americano, generale Donovan, per chiedere che gli Alleati consentano la formazione di «legioni combattenti con la bandiera italiana» da far combattere al fianco delle armate angloamericane, perché la nostra salvezza «passa anche attraverso la riconquista sul campo della dignità di Nazione libera e indipendente».
Insomma – annota nel suo diario Croce – «siamo stati vinti, e questo non bisogna mai dimenticare, ma anche i vinti hanno una dignità da serbare». La richiesta – per quanto firmata da un italiano autorevolissimo come lui, celebre pure all’estero, oltre che per il proprio profilo intellettuale, per il fatto che non si è piegato al regime fascista – cade nel vuoto.
Lo stesso succede per l’altra ipotesi che caldeggia in quei mesi: quella di dare all’Italia liberata un governo rappresentativo delle forze antifasciste. Tale soluzione, infatti, è paralizzata dalla permanenza sul trono di Vittorio Emanuele III, al quale Winston Churchill mantiene l’appoggio mentre Croce indirizza al giornalista americano Walter Lippmann una dura lettera rivelatrice sulle responsabilità dei Savoia. Affinché ne sia edotta l’opinione pubblica internazionale.
È su questo nodo che «l’ingegno raziocinativo e sottile» di Croce escogita – con l’elaborazione di Enrico De Nicola – la via d’uscita della luogotenenza, risolvendo così, «con la decisiva adesione di Togliatti», la questione istituzionale. Un capolavoro politico di cui il politico « malgré soi » è l’artefice. Dopo una parentesi lampo nel governo Badoglio di Salerno e in quello successivo di Ivanoe Bonomi, le sue fatiche di uomo pubblico si trascinano ancora per poco, sino al periodo della Costituente.
«Forse il pensiero della patria… tornando vivo e puro nei cuori, renderà più agevole la necessaria concordia nella discordia tra i partiti politici… che in avvenire… si combatteranno a viso scoperto e lealmente», aveva scritto «don Benedetto» tra il 1943 e il ’44. Concetti che sono stati mutuati tante volte, quasi parola per parola, da Napolitano, nei suoi ripetuti appelli per una civilizzazione del nostro degradato confronto pubblico. Così come non pare un caso che i suoi sforzi per ridare impulso alla costruzione europea risultino apparentabili a certe altre profezie di quel Croce che Bronislaw Geremek definì «uno dei grandi visionari dell’Europa unita».