Paolo Mieli Corriere della Sera del 4 marzo
Ci sono luoghi comuni che, malgrado le elaborazioni più attente della storiografia successiva, continuano a dominare l’opinione corrente a proposito degli oltre trent’anni (1882-1914) in cui l’Italia fu alleata degli imperi tedesco e austroungarico nel Dreibund , la Triplice Alleanza. E non solo di questo. Per smontare alcuni di questi giudizi consolidati, Gian Enrico Rusconi ha scritto un libro, 1914: attacco a occidente (edito dal Mulino) destinato ad essere imprescindibile per chi dovrà affrontare i dibattiti di qui all’estate, nella ricorrenza dei cento anni dall’attentato di Serajevo. Un luogo comune per antonomasia è che quella del Dreibund fosse, come scriveva Gaetano Salvemini, un’alleanza «innaturale». E anche che nello scoppio e nella protrazione del conflitto ci sia stato un che di inesorabile. Come sostenne il ministro degli esteri britannico David Lloyd George, che nelle sue memorie scrisse: «Le nazioni sono scivolate oltre l’orlo del cratere bollente della guerra». Ciò che colpisce Rusconi è il ricorso a quel verbo, «scivolare», quasi a voler dare un senso «preterintenzionale» all’esplosione del conflitto e di conseguente deresponsabilizzazione di coloro che lo causarono.
Qualcosa di preventivamente autoassolutorio lo aveva detto — in tempo reale, il 30 luglio 1914, parlando al Consiglio dei ministri prussiano — il cancelliere Theobald von Bethmann Hollweg che viene qui definito «il principale responsabile tedesco della decisione di guerra (anche se essa sarebbe stata impossibile senza l’approvazione del Kaiser verso il quale egli nutriva lealtà e deferenza, e senza le continue sollecitazioni dei militari)». «Tutti i governi, compreso quello russo e la maggioranza dei popoli in sé sono pacifici», disse quel giorno Bethmann, «ma si è persa la direzione e la pietra sta rotolando».
La verità è, invece, che i dispacci inviati da Berlino alle capitali europee in quell’estate del 1914 «contengono varianti e omissioni che», secondo Rusconi, «fanno sospettare la volontà di confondere il campo avversario». E gli effetti di questa politica studiata per frastornare gli interlocutori si ribaltano contro gli ideatori di questi stratagemmi, configurandosi come una prova di responsabilità. O, se si vuole, di grave irresponsabilità. Talché la tesi di una guerra «inavvertita», ossia sfuggita al controllo in quanto imposta da fattori tecnici, esterni alle intenzioni dei protagonisti, appare «suggestiva ma non sostenibile».
C’è poi un momento, nell’autunno del 1914, nel quale i contendenti avrebbero dovuto accorgersi che le cose stavano andando in modo diverso da come si erano immaginati che andassero. Tra il 6 e il 10 settembre ha luogo un grande scontro lungo un fronte di trecento chilometri tra Meaux e Verdun. È l’inizio di quella che prenderà il nome di «battaglia della Marna». Un evento, scrive l’autore, «paradossalmente decisivo proprio perché non risolve le sorti della guerra, come tutti si attendevano». I tedeschi infatti, «sotto pressione, decidono di ripiegare per assestarsi più a nord in trincee imprendibili». È così che «comincia quella Grande guerra che rimarrà fissata nella memoria collettiva come guerra di trincea con i suoi massacri insensati, i disperati assalti per conquistare poche centinaia di metri, i continui brutali bombardamenti di artiglieria», dopo i quali, come si disse allora (è riportato nel libro di Alistair Horne Il prezzo della gloria , Bur), «non si può distinguere se il fango sia carne o se la carne sia fango». La battaglia della Marna cambia la natura del conflitto: da guerra di movimento, diventa guerra di trincea, «fondendosi poi, con il passare del tempo, con la guerra di materiali». I francesi parlano di «miracolo della Marna», il filosofo Henri Bergson evocherà Giovanna d’Arco e la «lotta della civilizzazione contro la barbarie tedesca». Ma la battaglia non diede un vincitore e un vinto, tant’è che Parigi e Berlino si ostinarono a rimpiangere «un risultato migliore e risolutivo», ognuno a proprio favore. Risultato che si sarebbe potuto ottenere se lo scontro non fosse stato interrotto. «Per ragioni diverse», fa notare lo storico, «francesi e tedeschi ritenevano di poter arrivare a un esito decisivo, anche se erano molto provati». È legittimo chiedersi «perché i contendenti — di fronte all’esito inatteso della battaglia e alla paralisi militare che ne è seguita — non abbiano cercato vie di composizione del conflitto». Già, perché?
Nel 1915 entra in guerra l’Italia. I nostri alleati (e futuri nemici) non hanno una grande opinione di noi. Nel novembre del 1912 l’ambasciatore russo a Parigi, Aleksandr Izvol’skij, scrive al suo ministro degli Esteri Sergej Sazonov: «Nessuno crede che la Triplice Intesa o la Triplice Alleanza possano contare sulla lealtà dell’Italia che… nel caso di una guerra assumerà un atteggiamento di osservazione e poi si assocerà alla parte verso cui arride la vittoria». Dello stesso tono una nota del Conseil supérieur de la défense nationale francese, secondo la quale «l’Italia rimarrà probabilmente neutrale, ma non esiterà a schierarsi dalla parte del possibile vincitore». Tutti la pensano allo stesso modo. In un promemoria del 20 dicembre 1912, il capo di stato maggiore tedesco Alfred von Schlieffen afferma di non coltivare illusioni circa il nostro impegno: se il nostro Paese costringerà la Francia a lasciare due corpi d’armata e relative riserve ai confini alpini «questo è tutto il vantaggio che potremo verosimilmente trarre dall’alleanza con l’Italia in una guerra».
Si differenzia da tutti gli altri, a Roma, il capo di stato maggiore dell’esercito Alberto Pollio, la cui fedeltà al Dreibund suscita l’ammirazione di amici e (potenziali) nemici. Pollio si spinge a proporre ai tedeschi un’azione preventiva: «Non è più logico per la Triplice sbarazzarsi di ogni falso sentimento umanitario e incominciare per tempo una guerra che ci sarà comunque imposta? Per questo mi chiedo, in piena sintonia con il vostro grande re Federico, quando nel 1756 spezzò il cerchio ferreo dei suoi avversari: perché non cominciamo noi adesso questa guerra inevitabile?». Di più: Pollio sostiene che la Triplice debba «agire in guerra come un unico Stato». Ma il suo interlocutore tedesco Alfred von Waldersee inviterà il comandante supremo Helmuth Johann Ludwig von Moltke (sensibile alle suggestioni di Pollio) a non confondere quell’interlocutore con i suoi connazionali: «L’eccellente capo di Stato maggiore italiano è una grande mente, un uomo affidabile. Ma fino a quando durerà la sua influenza?». Per poi così irridere i precedenti di guerra del nostro Paese: «La nuova Italia sinora ha sempre fatto i suoi affari con le vittorie degli altri». Poi, dopo l’attentato di Serajevo, il 1° luglio del 1914 Pollio muore all’improvviso. I tedeschi sospettano si tratti di omicidio (ma non c’è alcuna evidenza in tal senso). Il successore di Pollio, Luigi Cadorna, il 27 luglio manda una lettera a Moltke in cui ribadisce i sensi della lealtà italiana all’alleanza e quattro giorni dopo predispone una «Memoria sintetica» per «il trasporto in Germania della maggiore forza possibile». Documento approvato dal re, o meglio, dal suo principale collaboratore. Vittorio Emanuele, però, la mattina successiva proclama la nostra neutralità. Si arriva così, scrive Rusconi, «all’assurdo» che vede «l’aiutante di campo del re mandare la sua lettera di approvazione a Cadorna pochissimo prima che il sovrano e il governo decidano di congelare l’intera situazione dichiarando la neutralità dell’Italia».
Cadorna, capita l’antifona, in un breve volgere di tempo si trasforma nel «più solerte sostenitore della guerra contro l’impero asburgico, scontrandosi con la riluttanza del governo che intende invece agire con circospezione». Così come Sidney Sonnino, che da posizioni filotedesche passa al fronte opposto, resistendo, da ministro degli Esteri (dopo la morte di San Giuliano, ottobre 1914), alle pressioni della Germania perché l’Italia stia ai patti e, quantomeno, rimanga neutrale. Ma in Germania non è che da noi si aspettino granché. Già il 14 luglio il segretario particolare del cancelliere Bethmann, Kurt Riezler, annota come sia molto improbabile che l’Italia mantenga i suoi impegni, «a meno che a lungo andare la nostra vittoria sia sicura o la ritenga tale». Il 2 agosto Moltke scrive: «Non attribuisco valore alcuno al fatto che l’Italia dia seguito per intero alla promessa di invio di truppe in Germania»; l’importante è che, quantomeno, non rompa platealmente il fronte della Triplice Alleanza. I tedeschi chiedono agli austriaci di promettere qualche compenso in più all’Italia. Ma l’Austria resiste, perché ritiene che in ogni caso l’Italia fiuterà il vento. Anche per il fatto che, come sostiene il primo ministro ungherese István Tisza «è militarmente debole e codarda». I tentennamenti sono infiniti. Quando a fine agosto sembra che l’offensiva tedesca contro la Francia sia coronata da successo, Antonino di San Giuliano (quattro settimane prima di morire) si affretta a scrivere: «Noi abbiamo sempre pensato che le probabilità di vittoria erano per la Germania». E pensare che lo stesso San Giuliano poco prima aveva detto che l’Italia poteva rompere con Austria e Germania. Ma solo, aveva prudentemente aggiunto, se avesse avuto «la certezza di vittoria». Ciò che gli appariva «non eroico», ma «saggio e patriottico».
L’unico a restare coerente è Giovanni Giolitti, il quale sostiene a più riprese che passare «all’aggressione (degli ex alleati) sarebbe un tradimento come ce n’è pochi nella storia». Il 26 aprile del 1915 l’Italia firma (segretamente) il patto di Londra, con il quale si impegna a entrare in guerra a fianco della Triplice Intesa. Poi con il «maggio radioso» le masse vengono mobilitate in modo che si possa pensare che il re abbia deciso in tal senso per appagare un desiderio del «suo» popolo. Olindo Malagodi incontra Giolitti il 9 maggio e lo trova furibondo («ha perduto la sua bella freddezza abituale», annota sul diario). Poi dice: «La gente che è al governo meriterebbe di essere fucilata… è un’idea fissa di Sonnino di fare la guerra per salvare la monarchia che non è affatto in pericolo… Salandra ha mentito! Già è pugliese!». Ma, nonostante sia il più importante uomo politico dell’epoca e benché disponga del consenso della maggioranza dei parlamentari, Giolitti non riesce ad impedire la nostra entrata in guerra a fianco dell’Intesa. Evidentemente, riflette Rusconi, «la riluttanza a fare la guerra non basta a bloccare l’effetto trascinante e intimidente della mobilitazione a favore dell’intervento, che è minoritaria ma potente dal punto di vista comunicativo». Non sarà l’ultima volta nella storia d’Italia che una minoranza «potente dal punto di vista comunicativo» prevarrà su una maggioranza che di quella potenza non dispone (o non sa disporre). Dopodiché lo storico ridimensiona l’accusa all’Italia d’essere venuta meno ai patti, facendo notare come anche l’impero austroungarico facesse in quelle circostanze il doppio gioco. Ma l’onta in qualche modo restava. E qui Rusconi mette in rilievo come Benito Mussolini nel 1940 abbia compiuto il tragico errore di entrare in guerra, a fianco dei nazisti, proprio per evitare di essere accusato di aver tradito la Germania «per la seconda volta».
Fondamentale all’epoca è quella che potremmo definire «la battaglia dei professori». Pochi mesi, scrive Rusconi, «separano le lacrime di commozione patriottica dei docenti berlinesi dalle lacrime per il massacro dei loro studenti». Viene qui riletto l’«Appello dei 93» che sarà sottoscritto, nel 1914, da ben quattromila intellettuali e accademici tedeschi. In esso si sostiene che la «lotta dell’Occidente contro il nostro cosiddetto militarismo» è una «lotta contro la nostra cultura». Chi ha posizioni avverse alla Germania è un «ipocrita»: «Senza il militarismo tedesco infatti la cultura tedesca sarebbe da tempo cancellata dalla faccia della terra». Non è vero, sostiene l’Appello, «che abbiamo criminosamente violato la neutralità del Belgio; è dimostrato invece che Francia e Inghilterra erano decise a violarla, sarebbe stato un suicidio non prevenirle». Né va dimenticato — prosegue il manifesto — che la popolazione belga «ha sparato ai soldati tedeschi alle spalle, ha mutilato feriti, ucciso medici nell’esercizio del loro servizio umanitario». Di più: «I nostri nemici, per atteggiarsi a difensori della civilizzazione europea, non hanno il diritto di allearsi con russi e serbi e di offrire al mondo il disgustoso spettacolo di aizzare mongoli e neri contro la razza bianca».
Tra i firmatari ci sono — salvo pochissime eccezioni — «tutti gli studiosi che ancora oggi sono considerati indiscusse autorità nei loro campi di studio». Non manca un nutrito gruppo di scienziati, come il biologo Ernst Haeckel, il fisico Max Planck e lo psicologo Wilhelm Wundt. È singolare, nota Rusconi, «che le storie ufficiali della filosofia preferiscano ancora oggi sorvolare sul punto, considerando l’euforia bellicista dei filosofi un incidente trascurabile». Per contro in Francia si schierano a favore della guerra André Gide, Marcel Proust, Anatole France, Paul Claudel, Emile Durkheim, Charles Péguy, persino lo storico «giacobino» Albert Mathiez. E in Russia aderiscono alla crociata contro la «barbarie teutonica» nemici giurati dell’autocrazia zarista come Plechanov, Kropotkin. I poeti Blok, Esenin e Majakovskij.
Rusconi è particolarmente incuriosito dalla figura di Thomas Mann, che il 7 agosto del 1914 scrive al fratello Heinrich: «Il mio sentimento fondamentale è di enorme curiosità e, lo confesso, nutro la più profonda simpatia per questa odiata Germania, così gravida di enigmi e di destino». Poi affiderà ai Pensieri di guerra questo ricordo: «Guerra! Quale senso di purificazione, di liberazione, di immane speranza ci pervase allora! Ecco, di questo parlavano i poeti, solo di questo. E quando poi si ebbero i primi risultati decisivi, quando si issarono le bandiere, quando i mortaretti rintronarono annunciando la marcia trionfale del nostro esercito sino alle porte di Parigi, non ci sembrò di avvertire allora una sorta di delusione, di disinganno come se le cose andassero troppo lisce, fossero troppo facili, come se la debolezza del nemico ci privasse dei nostri sogni più belli?».
Quanto poi alle Considerazioni di un impolitico , che Thomas Mann iniziò a scrivere nel 1915 (per sviluppare più ampiamente il libro nel 1917 e darlo alle stampe, a guerra persa, nel 1918), Rusconi afferma: «Non credo che sia un’opera sbagliata, mal riuscita o fallita — come hanno scritto alcuni critici. È un’opera enigmatica, a suo modo unica». Bersagli delle Considerazioni sono come è noto il fratello Heinrich Mann, prototipo del «civil-letterato», e Romain Rolland, premio Nobel della letteratura nel 1915, che ha la pretesa di mettersi «al di sopra della mischia». Agli occhi di Thomas Mann «rappresentano l’ipocrisia dei letterati della civilizzazione che si illudono e vogliono illudere di avere a cuore i valori universali cosiddetti democratici, mentre in realtà perseguono gli interessi materiali della loro parte politica contro la Germania». Con il progetto di «indurla a sgermanizzarsi». Poi, con gli anni, Thomas Mann cambierà idea. Ma non ripudierà mai le Considerazioni e con esse quella che considera «una battaglia di ritirata in grande stile, l’ultima e più tarda di uno spirito borghese tedesco e romantico, combattuta con piena coscienza della sua vanità e quindi non senza nobiltà d’animo» (parole scritte nel 1928, in piena Repubblica di Weimar). Nel marzo del 1952, tre anni prima di morire, tornerà su quel libro ormai considerato scandaloso: «Non me la sono mai sentita di rompere davvero con le Considerazioni , esse sono un’opera di travaglio e di scandaglio faticoso e schietto di me stesso a cui devo essere grato perché solo quella tribolazione ha reso possibile La montagna incantata ». La verità è da ricercarsi, secondo Rusconi, in qualcosa che ha «reso difficile a Thomas Mann un’adesione intima alla democrazia come istituzione e l’accettazione del valore ineludibile delle sue procedure». I meccanismi istituzionali e la logica elettorale, l’imprescindibilità delle regole parlamentari, l’idea stessa dell’egalitarismo sociale non lo «hanno mai davvero conquistato».
C’è però un grande intellettuale tedesco la cui firma non compare in calce all’«Appello dei 93»: Max Weber. Non certo perché sia antipatizzante nei confronti dell’impresa bellica. Anzi. Il 29 agosto del 1914 scrive: «A prescindere da come finirà, questa guerra è grande e meravigliosa». E non ha nemmeno obiezioni all’invasione del Belgio: «La causa della guerra non è stata la nostra marcia in Belgio, lo sappiamo; il Belgio non doveva diventare un varco dei nostri nemici». Eppure il sociologo non indulge alle retoriche che impregnavano le «idee del 1914». L’imperialismo liberale, di cui lui è un rappresentante, vede le relazioni internazionali immerse nella logica di potenza, «potenza temperata da forme di equilibrio in un più ampio sistema delle nazioni». Rifugge, Weber, «da ogni esaltazione vitalistica, razzista o estetizzante della potenza, da ogni euforia bellicista; la sua è piuttosto una visione fatalista, caratterizzata eventualmente da un certo titanismo morale». Ma il sentimento più diffuso (o che, quantomeno, appare tale, è quello del giovane volontario Ernst Jünger: «Siamo partiti sotto una pioggia di fiori, ebbri di rose e di sangue. Non vi era alcun dubbio che sarebbe stata la guerra ad apportarci quella cosa grande, forte, memorabile che tanto sospiravamo. Essa ci appariva un’azione virile, una divertente scaramuccia su prati fioriti, bagnati dalla rossa rugiada del sangue».
Rusconi dà credito a studi più attenti che ci dicono non essere andate le cose esattamente in quel modo: «Accanto all’adesione entusiastica, c’è anche un’oscura paura rimossa grazie alla prima straordinaria operazione mediatica di massa del Novecento, pilotata dalle agenzie statali e dai grandi giornali nazional borghesi, in grado di sedurre, zittire, oscurare le voci dissenzienti o perplesse… Sull’unanimità della festa popolare dell’agosto 1914 (qui in Italia del maggio 1915, ndr ), sulla euforia della partecipazione di tutti gli strati sociali, oggi si hanno forti dubbi». Si registra piuttosto un condiviso «spirito di servizio» per la patria in pericolo, nel quadro di un «patriottismo difensivo». Che è cosa diversa da quella che da cento anni si tramanda.
Attenti, dunque, alle «straordinarie operazioni mediatiche di massa», ci mette in guardia l’autore. Rusconi propone le parole del «supercapitalista» tedesco Hugo Stinnes, che qualche tempo prima dell’inizio del conflitto si opponeva al ricorso alle armi con questo argomento: «In Europa non c’è nessuno che possa contestarci il nostro rango. Dunque, tre o quattro anni di pace e vi assicuro la predominanza tedesca in Europa con tutta tranquillità». Una citazione che, letta oggi, appare maliziosa. La Germania del 2014, mette in chiaro Rusconi, «non ha nulla in comune con quella del 1914 salvo l’eccellenza economica, ma in un contesto internazionale e geopolitico inconfrontabile; il processo della sua integrazione europea e occidentale è irreversibile, a meno di imprevedibili disastri; se esiste un problema tedesco, è perché esiste un problema europeo, ma questo a sua volta non può essere adeguatamente compreso con l’apparato concettuale tradizionale con il quale abbiamo analizzato le vicende che culminano nella Grande guerra».
Parlando dell’oggi, «non è un dettaglio che la nuova assertività tedesca non poggi al suo interno su un sistema politico semiautoritario, come nel 1914, ma su un solido e funzionante modello democratico che ha sempre di mira una più intensa integrazione europea… È da qui che si deve cominciare a capire la Germania nella sua nuova normalità, che sembra porsi addirittura come modello di orientamento per le altre nazioni europee». Soltanto così «la si può eventualmente anche criticare». Che è un modo di puntare l’indice contro coloro che muovono accuse alla Germania richiamando alla memoria quel che fu nel 1914. O, addirittura, nel 1939. Accuse che, è bene ribadirlo, non hanno alcun fondamento storico.