SILVIA RONCHEY la Repubblica 21 gennaio
Mentre nel Medioevo occidentale vigeva il modello feudale, a Bisanzio si attuava una dinamica selezione delle classi dirigenti. Una lezione per evitare quella che Polibio chiamava “ oclocrazia”, cioè il governo “ dell’uomo della strada”
La democrazia è la peggiore forma di governo, ad eccezione di tutte le altre che nel tempo sono state provate», secondo la celebre frase di Churchill. Ma sarebbe meglio parlare di democrazie al plurale; non solo perché non esiste un’espressione pura di questa forma politica, teorizzata ma in quanto tale mai storicamente sperimentata, bensì varie e spesso ingannevoli esperienze statali, antiche e moderne, che se ne autoimpartiscono il nome; ma anche perché, come è stato scritto, esistono tanti regimi cosiddetti democratici «per quanti tipi di minoranze capaci di guidare le maggioranze esistono: plutocratico, clericale, militare, sindacalista» e così via. Sono di fatto varianti di una forma di governo che per lo storico greco Polibio era tutto sommato la meno deprecabile, nell’eterno evolversi o involversi del divenire politico (monarchia-tirannia-aristocraziaoligarchia- democrazia-demagogia fino all’oclocrazia ovvero al governo dell’ochlos, “dell’uomo di strada” o dell’odierno qualunquista): la forma oligarchica. In nessun caso nella storia il demos, il “popolo”, la massa, ha mai avuto per sé il kratos, il potere o tanto meno il governo. A detenerlo, nell’Atene del V secolo o nella Roma repubblicana o negli stati moderni che a imitazione di quelli definiamo democratici, è sempre stata una frazione o una pluralità di frazioni ristrette di individui che concentrano nelle proprie mani la maggior parte delle risorse disponibili — che si tratti di vantaggi materiali o immateriali, di censo o di cultura, di funzioni o di onori — e che, nell’antichità definiti oligarchi, nella modernità si definiscono élite. Il fatto che in ogni società o epoca questa minoranza si imponga alla quasi totalità della popolazione è uno dei primi, se non forse in assoluto il primo e più importante fra gli argomenti di riflessione dei filosofi, degli storici e di chiunque altro abbia studiato la politica, l’economia, la società in cui ha vissuto o quelle che l’hanno preceduta, a partire da Platone e Aristotele fino alle riflessioni tardottocentesche di quei pensatori che con l’affermarsi del capitalismo hanno fatto delle disuguaglianze sociali e della distribuzione del potere il loro principale, positivo ed empirico oggetto di studio. Se sulla «superiorità del piccolo numero» Max Weber ha scritto pagine senza le quali le sue teorie sul capitalismo non possono essere comprese, sono stati Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca a elaborare una teoria delle élite, della loro formazione e circolazione, del loro dinamismo e ricambio, come chiave di interpretazione globale della politica.
Il punto quindi non è se il potere debba andare all’élite o alla massa. Questa seconda possibilità non si è mai data, a meno che non si consideri tale quella “oclocrazia” di cui parla Polibio, effetto di una degenerazione demagogica del potere democratico-oligarchico, e in cui a dominare non è certo la massa come popolo ma come cieca, violenta e vaniloquente moltitudine di haters, la cui temporanea emergenza sulla scena politica è premessa certa di quell’autocrazia che, reinsediandosi, fa dolorosamente ripartire il ciclo.
Il punto è, invece, come debbano avvenire la genesi e il ricambio dell’élite. Senza considerare la qualità della minoranza dominante e senza quell’unico ammissibile giudizio che può nascere solo dalla valutazione del rapporto tra processo di selezione sociale e capacità naturali, ogni discorso su massa ed élite è vano.
Il processo di “dinamismo verticale delle élite” trova un’espressione virtuosa, e come tale è stato studiato dagli storici della scuola economico-sociale russa e poi sovietica del primo e medio Novecento, in uno stato gravato da molti pregiudizi storici, ma in realtà strutturalmente egualitario, come Bisanzio, che nei secoli bui dell’Europa contrappose al modello del medioevo occidentale feudale e papista la laicità dello stato da un lato e dall’altro la perenne apertura della classe dominante al più macroscopico ricambio di élite della storia europea: non solo sociale e culturale, ma anche razziale e religioso, dove l’affiliazione a una cultura comune — quella grecoromana — continuò a promuovere un profluvio di self made men sempre rinnovato attraverso la circolazione periferia-centro e una ben strutturata e finanziata istruzione pubblica.
La mescolanza di razze, lingue, provenienze geografiche, culture, unita alla massima possibile uguaglianza di opportunità, è in effetti, storicamente parlando, una dei presupposti del crearsi di una “buona” élite: capace di rappresentare la massa in modo non dissimile dalla molto più recente, multiforme, sfuggente a ogni definizione ma affascinante pluralità di frazioni sociali e rappresentanze culturali che un tempo abbiamo amato in quella “democrazia dell’America” la cui insondabile forza, con chiaroveggente empirismo, scorse Alexis de Tocqueville.
Se guardiamo con occhio altrettanto distaccato alla democrazia attuale dell’Italia, vediamo che il disagio delle sue masse nasce da un incepparsi, ormai tanto durevole da potersi definire storico, del meccanismo di ricambio delle élite. Non è di oggi l’impossibilità di un reclutamento trasparente nei quadri delle docenze scolastiche e universitarie, che assicurano il primo filtro di selezione dell’élite.
Non è di oggi l’accesso a posizioni di potere suggerito, come nel mondo feudale, da privilegi di clan quando non di sangue. Impasse logiche e ideologiche, familismi, settarismi, lobbismi partitici e automatismi clientelari, quando non criminali, hanno sempre più, nel corso dei decenni, a partire almeno dalla Guerra Fredda, impedito l’accesso egualitario a quelle risorse il cui possesso definisce un’élite — di denari o di saperi, di funzioni o di onori o semplicemente di presenza e influenza — lasciando, per la necessità storica additata da Polibio, che la demagogia si sostituisse a quella forma che chiamiamo, non senza mistificazione, democrazia, e che è, secondo Churchill, la peggiore forma di governo, ma sempre migliore dell’oclocrazia in cui il nostro paese, e non solo, rischia di precipitare.