L’Occidente e le pesti vecchie e nuove
Zeffiro Ciuffoletti Corriere Fiorentino 26 Marzo 2020
Assistiamo con un misto di stupore e di paura all’inarrestabile avanzata del coronavirus. Una pandemia, che sa di misterioso ed arcaico, riesce a mettere in seria difficoltà non solo la Cina, ma l’intera società occidentale, la più «avanzata» del mondo. Viviamo in un globo iperconnesso e seguiamo, confinati nelle case, giorno dopo giorno, ora dopo ora, il dilagare del contagio che supera ogni frontiera e ogni oceano. E costringe la scienza, dominus della nostra civiltà, ad una lotta che, per ora, sembra destinata a durare ancora a lungo e con esito incerto. Nel frattempo assistiamo all’adozione del terrore sanitario con politiche medievali di chiusura, confinamento, quarantena, respingimento. Per me che sto studiando, già da prima del coronavirus, la storia delle carestie e delle pestilenze nelle quali mi sono, inevitabilmente imbattuto, per una ricerca sul pane del quale mi sto occupando da anni, il paragone con le grandi pestilenze, che sconvolsero l’Occidente cristiano dal XIV secolo al XVIII secolo, è venuto spontaneo. Così come mi è sembrato incredibile, e non da ora, il modo superficiale con cui la cultura e la politica del mondo occidentale hanno affrontato la fase di intensa globalizzazione che stiamo vivendo. È difficile non riconoscere l’incapacità di comprensione delle implicazioni che sarebbero derivate dall’accelerazione degli scambi commerciali e umani, materiali e immateriali. Ci sono cascati addosso, senza memorie e senza storie, i mutamenti climatici, le migrazioni, le crisi economiche, le pandemie e le epidemie senza coglierne la portata e senza alcuna preparazione. In un mondo iperconnesso, ciò che è risultato sconnesso è stato proprio il pensiero nutrito e orientato dalla storia e dalla scienza. Non per erudizione, ma, appunto, per capire, vorrei ricordare che le pestilenze medievali furono, anch’esse, legate all’allargamento degli scambi fra Occidente e Oriente. La grande pestilenza, la «peste nera», che a metà Trecento (1348) provocò 20 milioni di morti, un terzo della popolazione europea, partì da Messina con le galee genovesi che avevano abbandonato il porto della città di Caffa, in Crimea, assediata dalle orde del Khan mongolo Yamibeg. Per costringere i genovesi alla resa fece catapultare dentro le mura i cadaveri dei suoi soldati appestati. La peste veniva dall’estremo Oriente, così come prima ancora la lebbra. E così come nel ’500 la sifilide, chiamata dai francesi mal napoletano, e dagli italiani mal francese, ma forse dovuta ad uno scambio di malattie fra il nuovo mondo e il vecchio mondo. Così la peste del Seicento trovò, nei porti e nelle grandi città di transito e di commercio, il suo sviluppo più disastroso da Milano a Londra, da Barcellona a Napoli, da Messina a Genova ecc. Avrete capito che dimenticarsi del passato lontano, così come di quello prossimo, vuol dire affrontare la globalizzazione come «gattini» ciechi o farfalline svolazzanti. Senza offendere né gatti, né farfalle. Naturalmente.