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Non basta un clic per fare democrazia

11/09/2020

Dai Cinque Stelle a Podemos Paolo Gerbaudo indaga le contraddizioni dei partiti digitali e la sfida lanciata alle formazioni tradizionali

 Piero Ignazi La Repubblica 8/9/2020

Internet informa la vita di ciascuno di noi: presiede in maniera pervasiva e imprescindibile all’interazione tra le persone. Lo stesso vale per le organizzazioni che sfruttano la Rete per comunicare sia al loro interno che all’esterno. Era inevitabile che anche i partiti vi si adeguassero. Ma c’è una distinzione importante, da cui prende giustamente le mosse Paolo Gerbaudo nel suo I partiti digitali , tra chi è nato al tempo della Rete, e chi era già presente nell’arena politica e si è trovato di fronte a questo nuovo strumento. I partiti tradizionali si sono adattati all’irruzione di Internet con risultati molto diversi.

Per rimanere al caso italiano, mentre il Pd, pur potendo contare su una ampia audience negli ambienti ad elevata istruzione e conoscenza, è rimasto praticamente all’anno zero della tecnologia digitale, la Lega ne ha fatto un uso molto più efficace. Entrambi, tuttavia, non sono “nativi digitali“. Solo partiti nuovi, nati “nella e dalla Rete” possono rappresentare una specie inedita, quella che Gerbaudo definisce “partiti piattaforma“, formazioni politiche che mimano le logiche di funzionamento di Facebook a Amazon, e fondano i loro processi decisionali interni esclusivamente sulla Rete. Il Movimento 5 stelle è il primo esempio di un partito digitale di grandi dimensioni (mentre formazioni come i Partiti Pirata, presenti in alcuni paesi del centro- nord Europa, non hanno ottenuto consensi significativi). Poi sono entrati in scena altri partiti, con diverso grado di digitalizzazione, da lo spagnolo  Podemos, che però non ha trascurato del tutto un radicamento territoriale tradizionale, al caso di maggior successo, La République en Marche di Emmanuel Macron (purtroppo trascurato da questo studio probabilmente perché emerso troppo a ridosso della redazione del testo, dato che il libro è stato pubblicato, nella sua versione inglese, all’inizio del 2019).

L’adozione integrale della logica della Rete non è solo strumentale, legata alla disponibilità di nuovi sistemi comunicativi, bensì riflette una filosofia di fondo: solo la Rete permette una vera democrazia. In questo, i 5 Stelle sono stati i più coerenti: Grillo e soprattutto Casaleggio avevano prefigurato, con accenti messianici e visionari, una democrazia assoluta, senza intermediazioni, una orizzontalità infinita del potere in cui uno vale uno. In effetti, il click a portata di mano, utilizzabile da tutti allo stesso momento consente di alzare il livello di partecipazione e di egualizzazione.

Ma solo in linea di principio. Il cortocircuito sta in chi attiva il clic, e su cosa. La promessa di democrazia integrale si è infranta proprio su questo punto. Come dimostrato nel libro, confermando quanto diventato di dominio pubblico, la democrazia elettronica non ha eliminato la distanza tra leadership e base, né ha realizzato un vero spazio di eguaglianza tra tutti i componenti. L’illusione referendaria si scontra con la modalità top-down dell’indizione dei referendum, in quanto è la leadership che sceglie i temi e indirizza il voto, sia con la formulazione delle domande, sia con una chiara indicazione di voto e mettendo il silenziatore a visioni contrastanti. Non per nulla, come viene riportato, tutti i referendum di Podemos sono stati “ratificati” dalla base, così come quelli, molto più numerosi, dei 5 Stelle (salvo due casi: il primo, nel 2013, significativamente su un tema tuttora controverso tra i pentastellati quale l’immigrazione, e il secondo, nel 2014, sulla decisione di incontrare o meno Renzi appena nominato capo del governo). Certamente la partecipazione nei referendum e attraverso gli altri strumenti della Rete ha raggiunto livelli significativi in questi partiti, e avvicinato alla politica molte persone prima distanti o apatiche. Tuttavia, gli iscritti digitali non godono di maggior potere decisionale rispetto a quelli dei partiti tradizionali. Inevitabilmente, la pretesa di democrazia assoluta si perverte nel dominio della leadership. Non solo iscritti e simpatizzanti rimangono rinserrati nel loro spazio individuale senza interagire tra loro: la gestione del portale del partito, sia in Podemos che nei 5 Stelle ( cosi come nella République en Marche), è inattingibile, fuori dalla portata dei singoli i quali non possono influire in alcun modo sul suo funzionamento e sulle sue scelte. Né possono scegliere su quali temi si deve votare o intervenire rilanciandoli e sostenendoli nella Rete. Inoltre non è prevista una interazione orizzontale tra gli iscritti ma solo un flusso comunicativo tra il singolo e i decisori, a volte nascosti dietro un oscuro e immateriale “staff“, contro il quale si sono infranti tanti critici interni al M5S, a incominciare dal sindaco di Parma, Federico Pizzarotti.

Il partito digitale non mantiene le sue premesse/ promesse di realizzare il paradiso in terra della perfetta democrazia, tutt’altro. Si dibatte in un coacervo di contraddizioni avendo alimentato plebiscitarismo e culto del leader, ancora più forte in Podemos che nel M5S, per non dire del partito di Macron. Allo stesso tempo però, indica una strada obbligata, quella del buon uso della Rete, dell’importanza di strumenti di partecipazione diversa dai canali tradizionali, e della necessità di riportare in auge arene di partecipazione interpersonale, faccia- a-faccia, dove si discuta e si chiamino a rispondere i dirigenti politici. Come suggerisce questo libro, i partiti digitali sono una sfida ai partiti tradizionali, per ora senza grande successo, anche se bisognerà monitorare bene lo sviluppo della République en Marche; ma la loro ispirazione originaria e le ragioni del loro sorgere, che intendevano rinvigorire non abbattere la democrazia, non possono rimanere senza risposta, pena la crisi finale dei partiti stessi.

I partiti digitali Paolo Gerbaudo Il Mulino (pagg. 280 euro 20)

 

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