Articolo di fondo della rivista “Storia e storie di Toscana” del direttore Pierandrea Vanni
La guerra è la più sciagurata delle imprese umane. Lo è così tanto da rappresentare una costante nella storia del mondo.
La prima guerra mondiale, per essere stata tale, per essere stata soprattutto guerra di trincea, per di più con l’impiego delle prime armi di distruzione di massa, è risultata fra le più sciagurate.
Questa premessa è necessaria per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco. Ma il rifiuto, anzi il ripudio della guerra per usare un termine inserito nella carta costituzionale, non significa cancellare l’oscuro sacrificio di migliaia di soldati e dimenticare che per l’Italia si trattava di portare a compimento l’unità nazionale e di concludere il ciclo risorgimentale.
Per un certo periodo nei libri di scuola la “Grande Guerra” veniva indicata come la IV guerra di Indipendenza. Solo retorica? Può darsi ma allora è retorico l’intero risorgimento e lo sono persino i primi moti con i quali si chiedevano ai governi dell’epoca di introdurre libere elezioni e di rinunciare all’assolutismo.
Oggi si chiede di riabilitare i disertori, o ritenuti tali, fucilati. C’è chi propone di chiedere scusa ai soldati mandati a combattere e chi contrappone l’eroismo della truppa alla fellonia dei generali e dei vertici militari, dipingendo la solita immagine di una Italietta approssimativa. Tutto legittimo, per alcuni aspetti anche vero, ma si può dire che questo è davvero uno strano modo per prepararsi a ricordare il centenario del 24 maggio 1915?
Da Redipuglia Papa Francesco ha ribadito con forza il no alla guerra e ha lanciato il suo monito ad una umanità che non rinuncia a combattersi, al tempo stesso ha reso omaggio ai caduti, a tutti i caduti, senza distinzioni. Un anniversario così significativo dovrebbe servire a questo ma anche a ricordare lo spirito di sacrificio di quanti erano al fronte, la consapevolezza di tanti di loro, sicuramente non tutti, di combattere per il Paese, anzi per la Patria. E di rappresentare la volontà, il desiderio o la speranza di una parte non piccola del popolo italiano. Non esistevano i sondaggi e dunque non si può sapere che dimensione avesse quella parte, ma era interclassista, politicamente traversale e certo non era costituita solo da generali ed esponenti dell’industria bellica.
La consapevolezza delle sofferenze patite, dei tanti drammi che sono comuni alle guerre, degli errori e degli eccessi commessi e dell’incapacità di una parte della classe dirigente, rappresentano tutti tasselli di un mosaico che certo non va dimenticato. E tuttavia ricordare e sottolineare solo questi aspetti significa proporre una sorta di verità monca, dunque parziale ma anche per certi aspetti ingiusta proprio nei confronti di chi non si tirò indietro e si fece carico di un peso enorme. Compresa una parte importante dello Stato e della classe dirigente.
Il tiro a segno che è iniziato prima ancora di entrare nel 2015 lascia perplessi. Sembra quasi che ci si debba cospargere il capo di polvere solo perché l’Italia si accinge a ricordare, sicuramente con sobrietà visti i tempi difficili, meglio se senza retorica. Ma il lungo tempo trascorso, l’essere in Europa con i nemici di allora, i cambiamenti enormi che ci sono stati, tutto questo e altro ancora è cosa ben diversa dal voler rappresentare per l’occasione l’Italia come uno struzzo. O nella migliore delle ipotesi come un Paese afflitto da strabismo, e, peggio, da una sorta di autoflagellazione ben al di là di “colpe” individuali e collettive che non possono offuscare i meriti, il coraggio, l’altruismo e il sacrificio di molti.