In un saggio a cura di Giuseppe Galasso, le storiche fratture socio-culturali italiane
Marco Demarco Corriere della Sera 5 Febbraio
Ascolta EmaC’è chi ha dato la colpa ad Annibale. Chi ancora punta l’indice su Federico II e sulla sua idiosincrasia per le città. Chi addirittura tira in ballo la mancata partecipazione meridionale alle Crociate. E chi, saltando un bel po’ di secoli, arriva diritto diritto ai Savoia, accusandoli di colonialismo ai danni del Sud. Ma quando, in buona sostanza, è nato davvero il problema del dualismo italiano?
Quando il Nord è diventato Nord, cioè manifatturiero, commerciale e finanziario, e il Sud è rimasto Sud, cioè prima tendenzialmente agrario e poi insufficientemente sviluppato rispetto al resto del Paese? Il tema resta d’attualità, sebbene oggi si usi poco parlare di questione meridionale e di questione settentrionale e ci sia una crescente condivisione delle emergenze. La stagnazione colpisce ovunque, gli speculatori fanno danni a Rapallo come ad Agrigento, le periferie si infiammano a Milano come a Napoli, e perfino la mafia e la camorra non sono più un’esclusiva meridionale. In più ci sono da considerare l’attenuarsi della passione federalista, che solo una stagione fa aveva preso la politica; la svolta nazionalista della Lega, non più antimeridionale; e la novità del decisionismo centralista di Renzi, che tende a declassare le differenze territoriali. Ma tutto ciò non annulla il dualismo, come annualmente confermano i rapporti Svimez. Del resto, anche in passato l’Italia ha alternato tensioni locali a momenti di «unità nazionale».
È già successo negli anni della Belle Époque, quando incontestato era il respiro europeo di Napoli; o in quelli della Prima guerra mondiale, con i soldati di Gela e di Pordenone stretti nelle stesse trincee e accomunati da un identico destino; o nel ventennio fascista, per via della retorica nazionalista che tendeva a rimuovere le diversità localistiche; o nell’Italia della contestazione sessantottina, quando la polemica ideologica e il conflitto di classe facevano di fatto decadere le presunte distinzioni antropologiche tra nordisti e sudisti. Ciò che accade oggi per effetto della crisi economica, delle migrazioni imponenti e della lenta modernizzazione del Paese, altro non è che uno di questi momenti.
Del dualismo italiano gli storici discutono almeno dal Seicento, da quando Antonio Serra, già allora superando una visione puramente naturalistica, si chiese come mai i genovesi avessero «tanti denari» pur avendo un paese «sterilissimo» e il Regno meridionale fosse invece così povero pur essendo «tanto abbondante». Un nuovo impulso alla riflessione viene ora da un libro di recente pubblicazione (Alle origini del dualismo italiano, a cura di Giuseppe Galasso, Rubbettino, pp. 312, euro 15) che raccoglie gli atti di un convegno svoltosi nel settembre del 2011; un convegno di studi internazionali programmato da Galasso e organizzato dal Centro europeo di studi normanni e svevi di Ariano Irpino.È proprio Galasso a offrire la periodizzazione più chiara e la sintesi più efficace di un fenomeno duraturo è assai complesso.
Il dualismo, spiega, comincia a maturare tra il 1000 e il 1350, e poi durante il «lungo Cinquecento», e non già con Garibaldi e Cavour nel 1860.
Tuttavia, aggiunge, è una realtà «per nulla immobile, ed è invece pienamente esposta a tutti i venti delle circostanze storiche». Vuol dire che il dualismo c’era e c’è, ma sempre è stato tale «da non impedire mai il costituirsi di una struttura, in senso lato, unitaria della penisola». Da David Abulafia a Henri Bresc, tutti i massimi esperti convocati ad Ariano Irpino lo confermano: nel presente come nel passato, il dualismo è fatto di scambi ineguali, ma anche di vincoli di reciprocità. La prima finestra a vetrate è testimoniata a Palermo solo nel 1476, all’arcivescovado, mentre è presente a Bologna dal 1335 e a Firenze alla fine del Trecento. Ma già da molti anni, queste stesse città, come Genova e Pisa, campavano solo grazie al grano siciliano. Viceversa, il ritrovamento nel 1999, ad opera di Alfredo Stussi, di una pergamena con versi d’amore potrebbe autorizzare l’ipotesi di una scuola poetica italiana già attiva prima della Scuola siciliana di Federico II. È la riprova che il mondo gira. Viaggiano le merci, le persone. E le parole. Il dualismo italiano è parte di questo grande mercato. Impossibile venirne a capo, scrive Galasso, senza considerare «la globalità della realtà storica».