Lettere al Corriere della Sera
Caro Cazzullo, lei esalta l’élite del Risorgimento, ma dimentica quanto è stato perpetrato dai governi sabaudi a danno delle popolazioni del Sud. Arcangelo Addeo
Caro Arcangelo, La difesa del Risorgimento mi ha procurato un implacabile nemico: i neoborbonici. Attivissimi sul web, dopo l’uscita di Viva l’Italia! mi coprirono di improperi. In segno di pace, quando girai — con Claudia Marini, Ilaria Luperini e Carlo Crocchiolo — un’inchiesta video sulle città italiane andai a intervistare anche loro, in uno studio sul rettifilo di Napoli pieno di bandiere e antiche mappe delle Due Sicilie. Non mi sono antipatici: la penso come Carlo Fruttero; «le passioni le condono tutte». Certo, quando scrivono che nel forte di Fenestrelle morirono migliaia di soldati borbonici, anzi decine di migliaia, e lo studioso Juri Bossuto — non un monarchico: l’ex candidato sindaco di Torino dei neocomunisti — documenta che gli scheletri sono meno di quaranta, viene da fare un po’ la tara ai loro argomenti.
È vero: dopo il Risorgimento ci fu al Sud una guerra civile, con atrocità da ambo le parti, a lungo taciute; ma non erano piemontesi contro patrioti. Erano le milizie della borghesia meridionale e ovviamente l’esercito italiano, che difendevano l’unità faticosamente raggiunta contro un’alleanza reazionaria di nostalgici dei Borbone e del potere temporale del clero, oltre a briganti in senso tecnico. Ma l’impressione è che la storia sia più che altro un pretesto per dare sfogo a un risentimento antico e non privo di giustificazioni. I neoborbonici, avanguardia dei sudisti, dicono in sostanza: il Sud era una grande potenza e lo sarebbe ancora se il Nord non l’avesse invaso, colonizzato, depredato (e in effetti Napoli, all’epoca la più grande città italiana, dall’unificazione ebbe anche danni). I nordisti ribattono: il Nord sarebbe la Germania se non avesse la palla al piede del Sud. Ma come non vedere che il ragionamento è esattamente lo stesso? «La colpa dei nostri guai non è nostra, ma di altri italiani; quindi non possiamo farci nulla». È un ragionamento consolatorio, ma inutile, e alla lunga controproducente. E poi dividersi ancora tra «terroni» e «polentoni», tra «noi» e «voi», quando ormai ci siamo sanamente mescolati — a Milano e a Torino metà della popolazione è di origine meridionale —, non ha più molto senso. Nessun italiano può dirsi estraneo a Napoli, la città che — dalla musica al cinema al teatro — meglio custodisce l’identità nazionale.
Aldo cazzullo