Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera del 28 febbraio
Negli scorsi giorni abbiamo appreso che il procuratore generale indiano G. E. Vahanvati ha presentato l’opinione del governo favorevole ad abbandonare il “Sua Act” (la legge antiterrorismo per la repressione della pirateria), ma ha chiesto che i capi di accusa vengano formulati dalla polizia Nia (National Investigation Agency) vale a dire dall’agenzia che tratta, per l’appunto, casi di terrorismo. La difesa si è opposta a quest’ultima ipotesi e il giudice ha fissato una nuova udienza tra due settimane. Abbandonare il Sua Act per la repressione della pirateria significherebbe che i marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non sarebbero processati come presunti terroristi. La stessa Corte, che ha aggiornato l’udienza al prossimo 7 marzo, ha deciso, come mi sembra giusto e logico, anche di esaminare la richiesta del governo italiano di contestare la giurisdizione della Nia sul caso. Speriamo in bene, e che i due nostri marò ritornino in Patria sani e salvi, e assolti per insufficienza di prove!
Andrea Delindati
Caro Delindati, la sua lettera contiene una buona sintesi della vicenda e ha il merito di non avanzare proposte stravaganti. Qualcuno ha scritto che l’Italia dovrebbe liberare i marò con una operazione di commando. Altri sostengono che il governo dovrebbe nominarli ambasciatori e dar loro un passaporto diplomatico. Altri ancora propongono di rompere le relazioni diplomatiche ed economiche con l’India senza chiedersi quale dei due Paesi ne sarebbe maggiormente danneggiato. Molti invocano il precedente della funivia del Cermis e dimenticano che un trattato internazionale, in quella circostanza, impediva all’Italia di giudicare i piloti americani responsabili del massacro. E quasi tutti infine accusano il governo di inettitudine e di insipienza. Come risulta anche dai puntuali commenti di Danilo Taino sul Corriere, sono stati certamente commessi alcuni errori. Le regole d’ingaggio, forse, non erano sufficientemente chiare. Sarebbe stato meglio evitare che la nave entrasse in un porto indiano. E la posizione dell’Italia sarebbe stata molto più forte, sul piano della coerenza politica e giuridica, se il suo governo avesse continuato a sostenere fermamente sin dagli inizi che l’India non aveva il diritto di processare i due fucilieri di marina e che il caso poteva essere giudicato soltanto da una corte internazionale. Mi chiedo ancora quali ragioni abbiano indotto il governo ad accettare di fatto la giurisdizione indiana. Posso immaginare qualche attenuante. Erano stati uccisi due pescatori, l’opinione pubblica indiana era indignata, il clima elettorale nello Stato del Kerala non favoriva compromessi e accomodamenti. Forse le autorità italiane a Roma hanno pensato che in quel momento convenisse adottare un atteggiamento meno antagonistico. Con questa linea sono stati raggiunti alcuni risultati: dapprima gli arresti domiciliari, poi due ritorni in patria e, infine, una sorta di libertà vigilata a New Delhi. Ma quando chiede che ai suoi cittadini non venga applicata una legge da cui è prevista la pena di morte, il governo accetta implicitamente che ne venga applicata un’altra. Sarebbe stato meglio sostenere che soltanto l’Italia ha il diritto di giudicare i suoi soldati soprattutto quando il fatto è accaduto nel corso di una operazione di polizia internazionale. Forse non ha torto chi sostiene che un mandato di comparizione, firmato da un procuratore italiano in occasione di uno dei due ritorni in patria, avrebbe autorizzato il governo a trattenerli e avrebbe risparmiato al Paese la pessima figura di una promessa non mantenuta. Ne concludo, caro Delindati, che il governo, non appena possibile, dovrà pubblicare sul caso dei marò un Libro Bianco, vale a dire una raccolta di documenti ufficiali. Vorremmo sapere esattamente che cosa è accaduto e quali lezioni si debbano trarre da questa vicenda.
Sergio Romano