Lettera al Corriere Fiorentino 26 ottobre
Adalberto Scarlino
Caro Direttore, mercoledì sono trascorsi cento anni da quel 24 ottobre 1918, giorno in cui il prudente generale Armando Diaz ebbe una ragionevole certezza della vittoria; e solo allora lanciò l’offensiva italiana contro l’esercito austriaco.
Quella terza battaglia del Piave, che portò il nostro esercito a riconquistare terre italiane dal Grappa a Trento e Trieste, fino all’armistizio del IV novembre 1918. Storia che oggi sembra cadere nell’indifferenza di tanti, di troppi, quasi dimenticata dai nostri rappresentanti politici, con rare eccezioni, scarsamente trattata, quando non sostanzialmente ignorata, nelle aule scolastiche e universitarie. Eppure l’Italia ebbe allora, dal 1914 al 1918, un ruolo determinante. All’inizio (di fronte al tradimento austriaco delle clausole difensive della Triplice Alleanza di cui faceva parte) con la scelta della neutralità, sostenuta da grandi liberali quali Giovanni Giolitti e Benedetto Croce; neutralità che, appena dichiarata, consentì alla Francia di traslocare al nord truppe indispensabili per la battaglia della Marna, a fermare l’invasione tedesca. Successivamente, con la partecipazione al conflitto: dall’Isonzo al Carso, ai monti del Trentino, fino alle tre battaglie del Piave, da quella di arresto dell’invasione nemica, a quella del solstizio, a quella di Vittorio Veneto, tutte e tre determinanti per la resistenza e poi per la vittoria non solo italiana, ma di tutta l’Intesa nell’autunno del 1918. L’Italia seppe, in quegli anni, soprattutto dopo la drammatica ritirata di Caporetto, «resistere, resistere, resistere» , sostenendo i suoi alpini, i fanti contadini, i cinque milioni di soldati e ufficiali combattenti in grigioverde. La Grande Guerra vide la violenza e gli errori — su tutti i fronti — di strategie militari perverse, ma anche le capacità e il coraggio di tanti combattenti. Accanto ai Comandi generali e ad alti ufficiali quantomeno discutibili, se non peggio, ci furono altri ufficiali — la maggior parte — che nelle trincee seppero essere di conforto, istruzione, guida ai soldati, ai nostri soldati, vivendo accanto a loro e combattendo davanti a loro. Sarebbe benemerita — nelle scuole, nelle Università, nei convegni — una rievocazione storica documentata, tale da mettere in evidenza luci ed ombre di quelle che furono le decisioni dei governi e della guida dello Stato, allora monarchia costituzionale, adeguata a raccontare e analizzare l’atteggiamento delle correnti politiche, socialiste e liberali, il comportamento dei cattolici, dei sindacalisti rivoluzionari, dei cristiani evangelici, dei massoni, degli ebrei, le idee e gli ideali degli irredentisti risorgimentali e degli irredentisti democratici. E il pensiero di tutti noi potrebbe (dovrebbe) andare alle migliaia di volontari che, coerenti con gli ideali del nostro Risorgimento, scelsero di combattere per l’unità, le libertà, l’indipendenza della Patria, convinti di contribuire, così, con l’abbattimento di quelli che erano gli imperi centrali, all’unità, alle libertà, all’indipendenza delle altre Patrie. Cento anni fa la Grande Guerra chiamò l’Italia alla prima, drammatica prova della sua storia di nazione giovanissima. Terribile prova, alla quale la nostra Nazione riuscì a resistere, superandola, vincendola, con i soldati al fronte, mentre le donne, allora, vollero e seppero farsi carico della vita quotidiana del Paese: dall’attività delle scuole al funzionamento dei servizi pubblici, dai lavori nei campi al soccorso negli ospedali con le migliaia e migliaia di crocerossine straordinarie infermiere volontarie.
A quegli anni, ai nostri cari, alle loro vite, a quello che allora seppero e vollero fare, dovrebbe tornare adesso la nostra memoria riconoscente: per rievocare, con semplicità ed affetto, la conclusione della Grande Guerra e celebrare quel 4 novembre che potrebbe tornare ad essere (il Corriere stesso lo aveva proposto) festa nazionale . E come tale essere da noi Italiani vissuta.