Il sogno di Anna, l’ospedale fondato alle Cure
in suo ricordo dal marito Giovanni.
Donatella Lippi Corriere Fiorentino27 agosto 2021
«La più parte de’ frutti cadono prima di maturare…». Così il protochirurgo dell’Ospedale Maggiore di Milano, nel 1780, descriveva i livelli della mortalità infantile, contro la quale la Medicina è stata a lungo inerme.
Del resto, l’attenzione al mondo dei piccoli, così come alle donne, ai malati di mente e agli animali non umani, era stata una conquista dell’Europa rivoluzionaria: i primi messaggi in favore dell’infanzia erano venuti dal pensiero illuminista, che aveva sollecitato il trattamento dei bambini non come piccoli adulti, ma come esseri umani in formazione, bisognosi di cure mirate.
Il mondo industrializzato ha poi avuto bisogno della manodopera infantile per far funzionare le filature, le tessiture, le miniere di carbone e il bambino è stato operaio e lavoratore prima che scolaro: la scuola per tutti è nata in Europa nel 1800 e, con il dibattito sull’educazione, è scaturito anche quello su salute e malattia, stimolando l’osservazione di un mondo nuovo, quello dell’infanzia, fino ad allora sommerso dalla cultura dell’adulto. È in questo momento storico che si colloca la nascita della pediatria, dal punto di vista della affermazione e della visibilità accademica: cambiano i luoghi che fanno da scenario al mondo dei piccoli, che diventano pazienti, e si diversificano le modalità di relazione. Nascono anche ospedali a loro riservati.
Bettino Ferrini. Questo il nome del primo bimbo che il 15 febbraio 1891 venne trasportato dall’ospedale di Santa Maria Nuova all’ospedale Meyer, da poco fondato alla barriera delle Cure e del Pino, allora periferia della città, grazie all’impegno del commendator Giovanni Meyer, che ne sostenne integralmente le spese: due padiglioni a un piano erano stati eretti lateralmente a un edificio a due piani, per un totale di 48 letti, a cui si aggiungevano la sala operatoria, le stanze di isolamento e quelle per i medici. L’architetto era Giacomo Roster, che, negli stessi anni, lavorava al manicomio di San Salvi… Giovanni Meyer avrebbe donato al Municipio di Firenze l’ospedale intitolato a sua moglie Anna.
Giovanni Meyer
Il medico Giuseppe Barellai e il chirurgo Carlo Burci avevano a lungo denunciato la necessità di dedicare un apposito ospedale a bimbi «sciancati» e «gobbini», vittime di incidenti, di sventurate malformazioni congenite o di incomprensibili disturbi della crescita, che lasciavano segni indelebili a livello del cranio, con prominenza delle ossa frontali, disegnando sulle coste le nodosità tipiche del cosiddetto rosario rachitico e deformando gli arti inferiori.
Stefano Ussi I gobbini 1852
La malattia, che deturpava fisico e psiche, arrestava lo sviluppo, rendendo l’intero organismo vulnerabile, e poteva alterare drammaticamente la gabbia toracica e compromettere la respirazione, conducendo a morte prematura. E i bambini morivano: gastroenteriti, febbri tifoidi e paratifoidi. Regina delle malattie infettive era la scrofola o adenite tubercolare. Lo stigma che caratterizzava i bimbi colpiti dalla tubercolosi ossea, il morbo di Pott, si esprimeva in vistose gibbosità e si aggiungeva a poliomielite, piedi torti, vizi angolari del ginocchio, incurvature della colonna, mancata ossificazione e mineralizzazione dello scheletro in accrescimento, che rendeva le ossa malaciche e rammollite, pronte a lasciarsi facilmente piegare e deformare. Tre suore oblate, alcune infermiere, una cuciniera, un faticante e una portiera costituivano la «famiglia» dell’ospedale, diretto da due primari e due astanti, per combattere anche scarlattina, angina tonsillare, croup, sinoca reumatica, febbri… per affrontare situazioni chirurgiche, che solo da pochi anni potevano contare sui metodi dell’antisepsi e dell’asepsi. Fu nuovamente la generosità di Giovanni Meyer a realizzare l’ampliamento necessario per la Clinica pediatrica, che fu collocata tra via Buonvicini e via Mannelli, ricca di un anfiteatro per 70 studenti.
La tipologia dell’architettura e degli impianti era all’avanguardia, assecondando i dettami della scienza igienista, ma bisognava potenziare le competenze del personale addetto all’assistenza, adeguare il vitto ai bisogni dei bambini e sollecitare la registrazione del decorso quotidiano della malattia e gli interventi terapeutici su appositi libretti. Nel contempo, veniva potenziata la dotazione scientifica, i laboratori, gli apparecchi per la terapia e la riabilitazione. E l’opinione pubblica superava progressivamente la diffidenza verso una struttura, che, dalle sue origini, aveva riservato una particolare attenzione agli «indigenti e miserabili»: fiorivano altri ampliamenti, con il nuovo reparto di isolamento, l’aumento dei letti in chirurgia, il gabinetto radiologico, le culle speciali per prematuri e il convitto infermiere. Poi, venne l’emergenza della guerra, il trasferimento provvisorio, la ricostruzione, con l’istituzione del reparto per cerebrolesi, il centro per la conservazione e la preparazione del sangue, l’impianto per l’ossigenoterapia, l’arricchimento della biblioteca per la formazione di generazioni di pediatri, che ebbero, come docenti, figure di grande prestigio: tra gli altri, Moisè Raffaello Levi, Giuseppe Mya, Carlo Comba, Cesare Cocchi…
L’ospedale Meyer sulla collina di Careggi
Il resto, è storia di oggi. Il Meyer era destinato ad ingrandirsi progressivamente, dotandosi di attrezzature sempre più sofisticate e di competenze sempre più qualificate, fino ad arrivare ad essere l’ospedale di eccellenza, che oggi sorge sulla collina di Careggi, dove un tempo si trovava Villa Ognissanti, per i malati di tubercolosi.
Grande, grandissimo, altamente specializzato, colorato, gentile. L’ospedale dei bambini.